Il Centro di competenze tributarie della Supsi torna con una dettagliata analisi sull'annosa questione che divide Ticino e Italia
L’accordo italo-svizzero sulla tassazione dei lavoratori frontalieri è bloccato da tempo soprattutto per veti italiani. Deputati e senatori di vario orientamento politico ed espressione dei collegi elettorali della fascia di confine che hanno trovato sponda politica nei governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni a Roma - anche in questo caso di vario colore - hanno di fatto bloccato l’iter di ratifica del nuova nuova intesa che rimane solo allo stadio di parafatura. Ovvero con la sola firma dei rispettivi negoziatori tecnici mancando a oggi la firma congiunta dei rispettivi governi. Dal 22 dicembre del 2015, giorno in cui è stato parafato appunto l’accordo, la famosa Roadmap italo-svizzera per regolare le questioni fiscali aperte tra i due paesi è rimasta sostanzialmente ferma. Sono cambiati i ministri degli esteri e delle finanze da una parte e dall’altra del confine; ma la normativa in vigore per il trattamento fiscale dei lavoratori transfrontalieri è la stessa dal 1974. Epoca quest’ultima che rispetto all’attuale è veramente di un altro secolo. Negli anni settanta non c’era la libera circolazione delle persone e il bacino rappresentato dai lavoratori frontalieri rappresentava una valvola di sfogo congiunturale per il mercato del lavoro locale. I frontalieri, infatti, non erano compresi nel contingentamento della manodopera estera allora in vigore.
Un ricco ed esaustivo articolo pubblicato sulla rivista ‘Novità fiscali’, a firma del professore Marco Bernasconi e delle ricercatrici del Centro di competenze tributarie della Supsi Donatella Negrini e Francesca Amaddeo, fa il punto sullo stallo politico, criticità e possibili scenari generati da una mancata intesa.
«È ancora qui l’accordo sui frontalieri del 1974 pattuito tra Italia e Svizzera, fermo e saldo quale fosse un masso erratico inamovibile», ci dice il professor Marco Bernasconi. «Quando è stato abolito il segreto bancario svizzero si è tentato di trovare nuove basi. Nel 2015 è stata sottoscritta una lettera d’intenti, secondo la quale l’intervento di modica doveva essere imminente. Tuttavia, a distanza di cinque anni, la Roadmap resta ancora lettera morta», aggiunge Marco Bernasconi commentando: «Il Ticino non ha alcun ruolo negoziale: può solo stare a guardare e pagare, dal 1974, più di un miliardo e mezzo di franchi».
Ed è qui il punto. L’accordo in vigore con l’Italia prevede che siano i soli cantoni del Ticino, del Vallese e dei Grigioni a riversare - annualmente - una parte (ora al 38,8%) delle imposte alla fonte trattenute ai lavoratori frontalieri impiegati presso un datore di lavoro svizzero. Nella vostra analisi riprendete l’accordo tra Svizzera e Austria che ha altri parametri.
«Accordi che regolano il trattamento fiscale dei lavoratori frontalieri sono in vigore anche con Francia (dal 1966) e Germania (dal 1971). Ma è la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Svizzera e Austria modificata nel 2006 il modello che potrebbe risolvere il problema ticinese. Nell’analisi individuiamo anche altre soluzioni come la possibilità che la Confederazione si accolli parte dei rimborsi. Proposte parlamentari ne sono state fatte negli anni scorsi, ma senza seguito. L’intesa con Vienna prevede che i lavoratori frontalieri siano assoggettati all’imposta alla fonte nello Stato in cui viene svolta l’attività lucrativa. Tuttavia, la Svizzera deve restituire il 12,5% delle imposte percepite sul reddito dei frontalieri all’Austria. Dal canto suo l’Austria impone integralmente questi redditi concedendo il relativo credito d’imposta. Infine, lo statuto di frontaliere è definito secondo l’Accordo sulla libera circolazione delle persone tenendo conto anche di chi rientra settimanalmente al proprio domicilio e non solo di chi lo fa quotidianamente».
«Un altro aspetto importante - continua Bernasconi - è dato dal fatto che tutti cantoni prelevano le imposte a carico dei residenti in Austria che lavorano nella loro giurisdizione. Sull’ammontare delle imposte prelevate versano il 12,5% all’Austria per il tramite della Confederazione. Quindi anche il Ticino impone il reddito del lavoro dipendente dei residenti in Austria. Così come per i residenti nella fascia di frontiera italiana con la differenza che sullo stesso reddito del lavoro all’Austria viene restituito il 12,5%, mentre all’Italia il 38,8%».
Se era solo una questione di percentuale, si poteva impostare il negoziato tra Svizzera e Italia con l’obiettivo di ridurre l’onere finanziario a carico del Ticino abbassando la quota di ristorno. Invece così non è stato. Uno degli obiettivi, tra gli altri, che si voleva conseguire era quello di combattere il dumping salariale estendendo l’imposizione ordinaria italiana anche ai redditi di lavoro percepiti dai propri residenti nella zona di frontiera, ma che lavorano in Svizzera. I motivi che spingono i frontalieri a cercare e mantenere un’attività dipendente in Svizzera sono principalmente le alte aspettative salariali e l’esigua aliquota d’imposta. È stata soprattutto questa prospettiva a frenare l’intesa politica sul lato italiano. A questo si aggiunge il timore dei Comuni della fascia di confine (entro i 20 km della Svizzera) di perdere i ristorni fiscali che ogni anno la Svizzera - via Ticino - versa a Roma e vincolati, in base all’accordo, a opere a favore delle comunità di frontiera. I numerosi atti parlamentari che i deputati eletti nei collegi lombardi e piemontesi dimostrano che il tema è sentito. Anche l’ultima lettera congiunta dello scorso aprile dell’allora presidente del Consiglio di Stato Christian Vitta e del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, con la quale sollecitavano i rispettivi governi a sbloccare l’intesa, ha suscitato viva contrarietà da destra a sinistra. L’adesione dell’Italia a quanto concordato nel 2015 «si presenta ostacolata, da un lato, dalla necessaria compatibilità costituzionale (parità di trattamento di tutti i contribuenti) e, dall’altro, dal maggiore prelievo impositivo a carico dei frontalieri, oltre al potenziale ammanco di introiti da parte dei Comuni di frontiera», precisa Bernasconi. Per il 2019, lo scorso 20 giugno, il Ticino ha riversato circa 90 milioni di franchi. Infine c'è il nodo della possibilità di denunciare l'accordo salvando la Convenzione contro la doppia imposizione tra Svizzera e Italia. Secondo l'analisi di Bernasconi, Negrini e Amaddeo le due intese sarebbero inscindibili: caduta una, cadrebbe anche l'altra. Sul tema è atteso prossimamente un parere dell'Università di Lucerna che è stata incaricata dal Consiglio di Stato ticinese di stilare un rapporto giuridico.
In base all’accordo del 1974, il ristorno delle imposte ai Comuni italiani dovrebbe essere versato solo per chi rientra quotidianamente al proprio domicilio. «Un ragionamento che fu accolto già nel 1985 nel corso delle negoziazioni per la riduzione dei ristorni dal 40% originario al 38,8% attuale. E questo proprio in ragione del fatto che non tutti i lavoratori frontalieri rientravano quotidianamente in Italia. Fattore ancora più evidente oggi visto la legge sugli stranieri prevede la concessione del permesso da frontaliere anche a chi rientra a casa settimanalmente», continua il professor Bernasconi. Stimando in circa il 20% i cosiddetti ‘falsi frontalieri, l’ammontare dei ristorni dovrebbe essere ridotta dell’8%, per cui il ristorno scenderebbe dal 38,8% al 32%». Il risparmio, sull’importo 2019, per le casse cantonali ammonterebbe a 16 milioni di franchi. «Se entrasse in vigore quanto convenuto con la Roadmap (limitazione dell’imposizione svizzera al 70% e tassazione italiana sul 100% tenendo conto poi del credito d’imposta, ndr), l’attenuazione per il Ticino sarebbe analoga», commenta Bernasconi che fa notare che «questa modifica avrebbe anche il vantaggio di non coinvolgere né i Parlamenti nei i Governi di Italia e Svizzera, potendo essere adottata, come nel 1985, direttamente dai ministri delle finanze dei rispettivi paesi».