Fino a un massimo di due giorni a settimana. Vitta: 'Importante l'esperienza della pandemia'. Ma Natalia Ferrara: 'Serviva più coraggio'
Due giorni di telelavoro a settimana per chi ha un grado di occupazione dall’80 al 100 per cento, un giorno per chi lavora tra il 50 e il 79 per cento. A tanto ammonta la durata del lavoro da casa di cui potranno godere i dipendenti dell’Amministrazione cantonale a partire dal 7 agosto. Lo mette nero su bianco il Consiglio di Stato, stilando un regolamento apposito a seguito del progetto pilota avviato nell’ottobre del 2018 e sperimentato su circa sessanta collaboratori per un anno. “Il telelavoro permette una riduzione dei tempi di trasferta e dei costi di trasporto con un impatto sul carico ambientale e il traffico stradale”, scrive il governo in una nota. Aggiungendo che “migliora la conciliabilità lavoro-famiglia e aumenta la motivazione dei collaboratori generata dall’accresciuta responsabilizzazione individuale conferita dal datore di lavoro”.
«Nella fase sperimentale si è trattato più che altro di capire se il sistema funzionasse e se fosse apprezzato, ma è stata superata dall’emergenza Covid che ci ha fatto mettere in telelavoro oltre 3’000 dipendenti» commenta da noi raggiunto il direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta. Una 'doppia esperienza' che «ci ha permesso di adottare questa forma anche al di là delle emergenze, in modo più strutturato. Chiaramente ci siamo riservati la possibilità di intervenire con misure straordinarie, tramite Risoluzione governativa, nel caso dovessero ripresentarsi altre emergenze». Un passo avanti per i dipendenti dell’Amministrazione cantonale, quindi. Ma per Vitta «le condizioni possono essere migliorate solo se visto come strumento complementare e funzionale all’attività professionale, se i criteri e i risultati sono presenti e misurabili il tutto può diventare uno strumento interessante nell'ottica dei cambiamenti della società».
«Non è questa la risposta che mi aspettavo dal Consiglio di Stato». Se non è una bocciatura poco ci manca da parte della liberale radicale Natalia Ferrara che, assieme al collega di partito Nicola Pini, nel 2016 aveva inoltrato la mozione cui, quattro anni dopo, ha fatto seguito questo regolamento. Che non la convince. «Bene che ci sia una proposta, finalmente, e che sia mista, ossia con lavoro in presenza e da remoto, peccato che con gli aspetti positivi ci fermiamo qui», spiega alla 'Regione' la deputata attiva nella Federazione delle associazioni femminili Ticino (FaftPlus) e particolarmente attenta sia al tema di genere sia a quello del lavoro. «Purtroppo questo regolamento è concepito come se si lavorasse in ufficio, però, a casa. Una nuova forma, sì, ma un superato modo di lavorare. Cambiare la scrivania non favorisce in sé una maggiore autonomia e, dunque, neanche la conciliabilità con la vita privata», aggiunge. Secondo Ferrara il telelavoro così regolamentato «non rappresenta lo strumento utile che in alcune realtà fa già la differenza da diversi anni. Non solo viene presentato come fosse un’eccezione ma deve anche rispondere a numerosi requisiti, un percorso a ostacoli, tanto più che chi svolge mansioni che richiedono la presenza fisica (istruzione, ordine pubblico, e via di seguito), non può lavorare a casa, ovviamente». In fondo, sostiene Ferrara, «bastava escludere chi necessariamente dev’essere presente, e chi, ad esempio, lavora con l’utenza allo sportello; per il resto, stabilire che di principio si può lavorare anche a casa, e non il contrario. Leggendo il regolamento si nota come il lavoro a casa funzionerà esattamente come in sede: stessi orari di servizio, stesse ore di lavoro. Mi chiedo quindi come il governo intenda perseguire gli obiettivi di flessibilità, autonomia e, appunto, conciliabilità» rincara Ferrara. Il discorso è chiaro: «Se il tema è la prestazione intellettuale l’importante è che si rispettino standard di qualità e termini di consegna, normalmente a casa non si stabilisce un orario che coincide con quello dell’ufficio. Piuttosto, con il superiore si concordano fasce orarie dove non si è raggiungibili o, al contrario, dove si garantisce la propria disponibilità. Uno dei requisiti dev’essere la possibilità di organizzarsi in autonomia. Il lavoro a casa permette di concentrarsi maggiormente – non venendo interrotti continuamente, ma anche di sbrigare pratiche private senza usufruire di permessi e congedi», aggiunge Ferrara.
Un altro punto critico per Ferrara «è che proprio lo Stato, quale datore di lavoro non intenda partecipare nemmeno parzialmente ai costi, come se questa nuova forma di impiego non rappresentasse un valore aggiunto. Peggio: sembra quasi che la postazione a casa sostituisca quella in ufficio, quando il concetto è quello di rotazione del personale. Il lavoro a casa integra e non sostituisce quello in ufficio, con gli altri, fatto anche di scambio».
Insomma, per Natalia Ferrara «è mancato un po’ di coraggio. Se ci fosse stato un Ufficio della parità il risultato sarebbe stato indubbiamente diverso», annota la deputata. «L’assenza di visione ha influito su questo regolamento, che non risponde alle esigenze di conciliabilità di una società moderna, che ha superato gli stereotipi di genere e liberato energie in favore di un maggiore equilibrio tra vita professionale e vita privata». Infine, ricorda che «addirittura in occasione dell’ultimo Comitato cantonale del Plr per la prima volta si è affrontato il tema della conciliabilità. Ora si tratta di andare avanti, servono nuovi sguardi e intenti: conta di più la presenza in ufficio o la prestazione? Le ore o le idee? Le regole rigide o i comportamenti responsabili nella realtà?».