Il veterinario cantonale Bacciarini: 'Non è un pericolo per l'uomo, ma colpendo maiali e cinghiali può provocare un disastro economico". Ecco le indicazioni
C’è un altro virus che si sta diffondendo in Europa, oltre al Covid-19. Si tratta della peste suina africana (Psa). Colpisce suini e cinghiali, e fortunatamente «non costituisce un pericolo diretto per l’uomo. Ma il suo propagarsi comporta gravi ricadute su tutta la filiera della carne» spiega alla ‘Regione’ il veterinario cantonale Luca Bacciarini, presentando la campagna di prevenzione già lanciata a livello nazionale. Perché «in Svizzera non sono ancora stati registrati focolai tra gli animali» e quindi si può fare ancora in tempo, con pochi accorgimenti, a evitare un disastro economico, oltre a evitare che gli animali si ammalino. Già, disastro economico: «Gli animali contagiati devono essere abbattuti, con perdite che in alcuni paesi contano in migliaia di capi, e i conseguenti danni ingenti al mercato della carne suinicola». Arrivata in Europa nel 2007 con i primi casi registrati in Georgia, questa peste suina «si è gradualmente diffusa tra gli allevamenti di suini domestici e in seguito nei cinghiali di tutto il Caucaso, per colpire poi la Russia, l’Ucraina, la Bielorussia e raggiungendo così i paesi dell’Unione europea dove ha colpito soprattutto in Lituania, in Polonia e più recentemente in Belgio» riprende Bacciarini. E perché questa malattia altamente contagiosa presso maiali e cinghiali non si diffonda «è fondamentale che anche l’uomo faccia la sua parte». A partire «dall’evitare l’importazione di carne cruda e insaccati dai paesi a rischio» spiega il veterinario cantonale: «Tutti gli scarti di cucina che contengono o sono entrati in contatto con alimenti di origine animale, devono essere raccolti correttamente nel sacco dei rifiuti e smaltiti nel cassonetto. Per questo motivo anche la raccolta comunale dell’umido e la gestione degli ecocentri deve prevedere soluzioni che impediscano l’accesso degli animali selvatici ai rifiuti».
Inoltre, «poiché il virus è molto resistente nell’ambiente e può essere trasportato attraverso i vestiti e i veicoli, chi entra o torna in Svizzera da paesi a rischio, dove magari è entrato in contatto con maiali o cinghiali, è tenuto a evitare qualsiasi contatto con suini domestici o cinghiali». Va evitato in ogni modo che questo virus si diffonda, annota Bacciarini: «In caso di epidemia o di comparsa di un focolaio la nostra normativa prevede restrizioni molto severe, tra cui il divieto di accesso per le persone alle aree boschive e territorio in cui è presente la malattia. Senza dimenticare che è previsto l’abbattimento di tutti i suini nel territorio circostante il focolaio». Come se non bastasse, «tutte le relazioni commerciali di importazione o esportazione di animali vivi suscettibili, o di prodotti lavorati, ne risentirebbero gravemente e potrebbero essere addirittura interrotte». Per entrare in un ordine di idee «in Belgio l’epidemia, arrivata nel 2018, ha interessato solo i cinghiali e le perdite finanziarie del settore oscilleranno tra i 447 e i 584 milioni di euro. Immaginiamo cosa potrebbe accadere in Svizzera e se a essere colpiti fossero anche i maiali». Insomma, la prevenzione non sarà mai troppa. Anche perché i recenti allarmi lanciati dall’Organizzazione mondiale della sanità sulla la Cina riguardano la recrudescenza di un fenomeno noto all’Europa, si diceva, già da 13 anni. E nel solo 2019, conclude Bacciarini, «nei paesi dell’Ue la malattia è stata riscontrata in 1’900 aziende suinicole e in 6’400 cinghiali. È più che mai opportuno prepararci per tempo, organizzandoci per far sì che un eventuale arrivo del virus in Svizzera venga diagnosticato nel più breve tempo possibile».
Glauco Martinetti, direttore della Rapelli di Stabio, osserva: «Più il sistema produttivo dei suini è organizzato, più difficilmente la malattia di un animale selvatico entra nell'allevamento. E ciò per la presenza in quell'allevamento, organizzato, di tutta una serie di barriere sanitarie». Barriere sanitarie, sottolinea Martinetti, «che in Svizzera - in quella centrale in quella orientale dove si concentra il grosso degli allevamenti di maiali - ci sono da tempo. Poi ovviamente, se ci riferiamo alla Psa, più è alto il numero di cinghiali infetti allo stato selvatico, maggiore è la probabilità che il virus entri negli allevamenti, ma almeno per ora non siamo certo confrontati con le situazioni che hanno conosciuto Paesi come quelli dell'Est europeo o la Cina, anche se è importante tenere sotto costante osservazione l'evoluzione di questa malattia e sconsigliare l'importazione di carne e insaccati dalle nazioni colpite dalla peste». In Svizzera «vengono abbattuti ogni settimana in media 50mila maiali, cosa che avviene nel rigoroso rispetto di precise norme igienico-sanitarie. Non solo. Nel nostro Paese, dell'allevamento delle scrofe e della fase dell'ingrasso non si occupa lo stesso contadino: questo per ridurre ancor più la probabilità di contagio». Il grosso degli allevamenti di suini si trova, come detto, nella Svizzera centrale e in quella orientale. «In Ticino ce n'è uno solo ma per numero di capi e quindi di abbattimenti non è paragonabile alle produzioni d'oltre Gottardo», spiega Martinetti. Il rischio di contagi da Psa in Ticino «potrebbe manifestarsi negli alpeggi dove d'estate si porta un numero comunque contenuto di maiali, perché possano bere il latticello dopo la produzione del formaggio, e dove ci sono cinghiali selvatici. Ma ripeto: la peste suina africana è ancora lontana dalla Svizzera. E in ogni caso ritengo che sia veramente difficile che la malattia possa entrare nei nostri allevamenti per via di quelle barriere sanitarie cui accennavo prima», ribadisce il direttore della Rapelli, ricordando che «questa malattia non è comunque trasmissibile all'uomo, né direttamente dall’animale né tramite il consumo di insaccati di maiale».
Per il momento, afferma il veterinario cantonale, non si registrano focolai in Svizzera e dunque in Ticino. «Chiaramente bisogna tenere alta la guardia e se le autorità a un certo punto solleciteranno l'adozione di puntuali misure di natura preventiva ci muoveremo anche noi per informare e sensibilizzare, attraverso i nostri canali, gli addetti del settore - dice Sem Genini, direttore del Segretariato agricolo dell'Unione contadini ticinesi -. L'importante è muoversi tutti nella stessa direzione e di farlo insieme e velocemente quando i competenti uffici federali e cantonali emanano specifiche direttive, e ciò a dipendenza dell'evolversi della situazione. È evidente che quanto accaduto nei Paesi toccati dalla peste suina africana non ci deve lasciare indifferenti e ci deve preoccupare. Le epidemie, del resto, raramente conoscono confini e come abbiamo visto recentemente con il Covid-19 ci vuole poco per farle diffondere a macchia d'olio. Ma per quanto riguarda la Svizzera sarebbe davvero inopportuno oggi creare allarmismi prematuri». Dunque, aggiunge Genini, «occorre restare vigili e adottare puntuali misure preventive, caso per caso, allorché tale passo si rivela necessario, anche perché queste misure hanno un costo spesso non indifferente per gli allevatori e incidono anche sul benessere degli animali. Durante l'aviaria per esempio, non si poteva far uscire il pollame all'aperto». In ogni caso, ricorda il segretario agricolo, «i cinghiali da noi sono già ora un grosso problema, causano un sacco di danni importanti all'agricoltura, ai pascoli, alle colture, alla vigna, un po' a tutto insomma».