Un bimbo ha per forza bisogno di un padre e una madre? Risponde lo psichiatra e psicoterapeuta della famiglia Michele Mattia
“Un bambino deve avere un padre e una madre”, “un figlio che cresce con due mamme o due papà non può essere felice”: frasi che ritornano ogni volta che si parla di famiglie omosessuali. Come in questi giorni, dopo l’approvazione da parte del Consiglio nazionale di matrimoni e adozioni gay, nonché dell’inseminazione per le coppie lesbiche (ora si attende il responso degli Stati e di un eventuale referendum). Eppure gli esperti paiono ridimensionare le preoccupazioni di alcuni: l’americana Cornell University, ad esempio, ha passato in rassegna 79 studi scientifici sul tema, dei quali 75 escludono particolari svantaggi per i figli di genitori omosessuali (gli altri 4 sono stati messi in discussione per la scelta del campione e del metodo). Le variabili osservate negli Usa – dove si contano quasi 200mila figli di genitori LGBT – sono numerose: equilibrio emotivo, orientamento sessuale, stigmatizzazione, comportamento di genere, attitudine comportamentale, apprendimento e perfino la media dei voti; in nessun caso crescere con due genitori dello stesso sesso pare un percorso più in salita di quello ‘tradizionale’. Ma allora perché persiste una certa diffidenza? Ne parliamo con Michele Mattia, psichiatra, psicoterapeuta della famiglia e presidente dell’Associazione della Svizzera italiana per l’ansia, la depressione e i disturbi ossessivi compulsivi (Asi-Adoc).
Dottor Mattia, come mai si teme il superamento della famiglia ‘tradizionale’?
Si tratta di uno smarrimento in un certo senso comprensibile: questo superamento mette in crisi il modello di famiglia che conosciamo meglio e al quale ancoriamo molti dei nostri riferimenti cognitivi e culturali. Un cambio di paradigma passa sempre da una crisi del sistema di società e di pensiero dominanti, dunque può generare angoscia e stimolare reazioni all’insegna del pregiudizio.
Ci si chiede di superare un’idea di genitorialità ancorata alla sessualità per svilupparne una basata sull’affettività. Quindi sulla capacità di accogliere e accudire. In questa cornice l’uomo può anche fare emergere la sua parte femminile, e viceversa. Il bambino incontrerà quindi una realtà familiare diversa. Ma nella misura in cui i figli vengono amati, nulla preclude il successo di un modello diverso da quello – ancora molto influenzato anche dall’elemento religioso – che per secoli è stato dominante.
In questa fase un problema sono proprio i pregiudizi vissuti all’esterno, nella propria comunità. L’esempio classico è quello della famiglia gay che si trovi a vivere in un quartiere molto conservatore. Le difficoltà in questo senso ci sono, è innegabile. Ma allora a maggior ragione occorre imparare a guardare la realtà con uno sguardo nuovo: sarebbe controproducente darsi per vinti. È poi proprio l’esperienza che permette di ‘sciogliere’ certi pregiudizi e certe credenze.
In realtà anche nelle famiglie omosessuali i singoli genitori tendono ad esprimere caratteri differenti e a ritagliarsi ruoli più complementari che sovrapposti, quindi il bambino imparerà a distinguerli come individui: come con il colore della pelle, anche il genere passa in secondo piano rispetto alla persona. D’altronde è la stessa famiglia eterosessuale a essere cambiata, meno rigida rispetto ai ruoli di ciascun genitore.
La priorità politica è quella di creare le piattaforme giuridiche che garantiscono riconoscimento e diritti: il politico non deve alimentare il pregiudizio e quindi il rischio di reazioni ostili. Più in generale, sia a livello privato che professionale è importante liberarci dei nostri preconcetti: in questo può fare molto la scuola, ma si tratta di un compito che ci vede tutti impegnati, inclusi coloro che svolgono un ruolo nel sostegno psicologico e nel settore sanitario. È un lavoro da fare sui nostri costrutti più rigidi per imparare a vedere non più il genitore gay, ma la persona. Da qui passano il supporto alle nuove famiglie e l’elaborazione di modelli inclusivi, che consentano a ognuno di vivere la propria libertà.
In questo caso negheremmo quella libertà e finiremmo per alimentare forme di repressione e sofferenza. Questo è ben evidente in chi ancora oggi nasconde la sua omosessualità dietro allo schermo di una famiglia tradizionale, con frustrazioni notevolissime e conseguenze gravi per il suo e altrui benessere.
Mi pare che si tratti di speculazioni poco coerenti: la stessa questione dovremmo allora porla anche per le coppie eterosessuali che hanno figli da sperma di terzi, per i bambini adottati… Casi che nella nostra società vediamo già da molti anni. Cosa vogliamo fare, andare a ripescare tutti i genitori naturali dei figli adottivi? Non si direbbe una soluzione praticabile. Anche perché il problema, in presenza di una famiglia capace di amare e accudire i suoi figli, non si pone.