Come si ritrovano quelle routine tanto importanti per accudire persone con disturbi dello spettro autistico? Lo chiediamo a mamme e sorelle
Mercoledì 2 aprile si è celebrata la giornata mondiale dell'autismo. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con le famiglie.
“Oggi mi sono sentita utile e stavo bene”. Poche parole sul diario di Sara, 39enne autistica, segnano una vittoria più importante di quanto possa sembrare a prima vista: «Sapere dell’epidemia, dovere rimanere chiusi in casa, vedere le proprie abitudini stravolte angoscia chiunque, figuriamoci una persona autistica», ci spiega la madre Patrizia Berger, che è anche presidente dell’associazione Autismo Svizzera italiana (Asi). Per arrivare a quel momento lì – quello nel quale Sara si diverte a passare il mocio in casa, ad aiutare col pranzo, a prendere il suo ginseng quotidiano in un’altra stanza della casa come se fosse la solita tea room – è toccato riscrivere tutta la sceneggiatura della giornata-tipo: «Dico sempre che è un po’ come stare nella Domenica popolare. Ma basta un imprevisto per scombinare tutto: un campanello, una telefonata. Ieri ad esempio non andava Skype e non riuscivamo a connetterci con mia sorella, ed è stato subito panico…» In casi come questi, le reazioni possono andare dalle urla alle aggressioni fisiche. E poi c’è la preoccupazione degli stessi genitori, che oggi ancora più del solito si chiedono «e se mi ammalo? Che ne sarà di mia figlia?».
Aiuta, e molto, una rete ad hoc: «Ci siamo subito attivati con il medico cantonale, con gli istituti e gli operatori sociali sul territorio per garantire a tutti la massima assistenza», spiega Patrizia. «Abbiamo previsto modalità di intervento nel caso in cui si dovesse ammalare una persona autistica o un suo famigliare. Abbiamo anche creato un gruppo WhatsApp per restare in contatto, organizzato incontri in remoto con gli operatori che seguono i nostri figli. Un pedagogista online risponde ai quesiti delle famiglie per un’ora ogni giorno. Le scuole hanno organizzato il sostegno a distanza. L’importante è che nessuna famiglia sia lasciata sola: che si resti distanti ma vicini, come si dice, fra di noi e ai nostri terapisti e persone di riferimento».
Dopo la fase iniziale, insomma, si è cercato di ricostruire una nuova consuetudine: «La colazione, un bel programma tivù di yoga, la cucina, il riposo, una passeggiata nel bosco. Un po’ come facciamo in colonia. Abbiamo spiegato a Sara che è come quando andiamo in vacanza. E abbiamo cercato di sdrammatizzare!”, esclama Patrizia, con la voce leggera di chi sa che riderci su è già un bell’aiuto. «Abbiamo dovuto farci l’abitudine anche noi genitori: io non ero abituata a stare sempre in casa. Ma è stata un’occasione per conoscerci molto meglio, per fare un salto di qualità, andando a fondo nel nostro rapporto. Le difficoltà non mancano, ma cerchiamo di vivere questo periodo come il tempo della relazione». Così pian piano, come scrive Sara sul suo diario, la giornata ricomincia con più equilibrio: «Svegliandosi con una certa grazia, lasciando che il corpo si riprenda. Pur con gli occhi che si aprono lentamente, la testa può ben prendersi la sua calma».
Anche per Manuela Corti Chiesa e suo fratello Stefano, 49 anni, la situazione è nuova: «È bravissimo, ma non capisce che il mondo si è fermato e che non può più avere la sua quotidianità». Quello che gli manca di più è «il caffè quotidiano al bar, da McDonald’s o all’Ikea, dove può riempire la tazza quante volte vuole, e le sue attività ludiche»; più in generale «l’inclusione che trova facendo la spesa, andando dal medico, in fisioterapia eccetera. Ora dobbiamo arrangiarci per mantenere una parvenza di routine più rassicurante possibile: cerchiamo di organizzare in casa piccole mansioni, e almeno un paio di volte alla settimana ci vestiamo, mettiamo il caffè di casa nel thermos, portiamo Stefano a fare un giretto in macchina e lo beviamo in un parcheggio. Ma ormai si sta stufando anche lui». L’altro giorno ad esempio «ci ha fatto una crisi, si è chiuso in camera per un’ora, steso a letto. Si è agitato molto, perché pensa che tutto ciò sia un castigo per lui». Ad aiutare sono anche il medico e lo psichiatra, via Skype. E poi Manuela e la sua famiglia non mollano: «L’importante è che stiamo bene».
Ma i genitori di bambini autistici, come fanno? Chiamando una di loro ci si sarebbe aspettata la voce provata di chi deve combinare il lavoro, la ‘clausura’ e le particolari necessità del proprio figlio. Invece Samanta Ierace, impiegata e mamma di Alessandro, 8 anni, ha una voce effervescente: «Guardi, Alessandro in questo momento è il bambino più felice del mondo: col fatto che non deve andare a scuola e a fare la sua terapia, dice sempre ‘Siamo in vacanza!’Però dobbiamo farlo lavorare anche a casa, per evitare di perdere i progressi fatti finora, e lui non sempre accetta di doverlo fare nel contesto casalingo». Sicché si arrabbia: «Si morde la mano fino a lasciarsi il segno». Samanta comunque ha tutto sotto controllo, nei limiti del possibile: «Gli ho organizzato tutta la giornata, dalla sveglia delle 6 – è molto mattiniero – alla doccia delle 20. Facciamo i puzzle che a lui piacciono tanto, giochi come Memory, percorsi sensoriali sul pavimento, esercizi con la palla e attività per la motricità fine, qualche uscita per fargli scaricare le energie. Anche perché se non lo tengo occupato mi smonta e rimonta tutta la casa secondo la ‘sua’ idea di ordine…» Con la scuola è più difficile, «Alessandro fa fatica a capire che può vedere i suoi compagni solo al computer, glielo stiamo facendo accettare un po’ alla volta. Ma anche su quello ci stiamo organizzando». Ogni tanto, quando Samanta deve lavorare, c’è l’amaca che gli hanno montato in camera: «È la nostra salvezza».