Proviamo a raccontarvi chi cammina nelle scarpe di disturbi ancora misteriosi, a partire dalla Svizzera italiana
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
L’autismo non è una malattia: «è un modo di essere». Claudio Cattaneo, pedagogista e direttore dal 1997 della fondazione Autismo Ricerca e Sviluppo (ARES), sintetizza così l’ampio spettro di deficit dello sviluppo neurologico definiti, appunto, «disturbi dello spettro autistico».
Un termine-ombrello che designa «neurodiversità» di origine prevalentemente genetica, da lieve a grave, che in circa il 50% dei casi si combina con ritardi mentali di altrettanto varia gravità. Come dire: non tutti sono il Raymond di Rain Man, reso celebre dall’interpretazione di Dustin Hoffman; e neanche Temple Grandin, la brillante scienziata che per descrivere la sua vita in un mondo di persone «normali» dice di sentirsi come «un’antropologa su Marte»: lontana, isolata da un guscio che a volte pare impossibile far esplodere. Altri casi, più gravi, coincidono con la totale incomunicabilità e con sintomi fisici e mentali tali da rendere necessaria un’assistenza continua.
In Ticino nascono ogni anno fra i dieci e i quindici bimbi autistici, circa uno ogni cento, con un’incidenza quattro volte superiore nei maschi. I residenti autistici nella Svizzera italiana sono circa un migliaio. Non è una malattia, dicevamo: e infatti non si guarisce. Ma la diagnosi precoce, insieme a un efficace percorso educativo e terapeutico, è decisiva per contrastare le difficoltà nella comunicazione, nelle relazioni umane, nei comportamenti spesso ossessivi: «Prima me ne accorgo, prima posso intervenire con terapie comportamentali, ergoterapiche, di logopedia nel momento in cui i circuiti neuronali sono ancora in formazione. È come per una casa: è più facile fare i circuiti elettrici quando si sta ancora costruendo», spiega il professor Gian Paolo Ramelli, primario di Pediatria agli ospedali regionali di Bellinzona e Locarno.
Grazie alla sensibilizzazione di pediatri e famiglie – per esempio attraverso corsi ad hoc e materiale informativo – si è riusciti ad anticipare di molto l’identificazione di questi disturbi, che un tempo avveniva attorno ai 4-5 anni o addirittura in età adulta. Questo permette di inserire due terzi dei piccoli in classi regolari. Perché l’altro pilastro fondamentale della strategia a supporto delle persone autistiche è l’inclusione sociale: ARES segue circa cento famiglie con figli autistici e oltre quaranta adulti, affiancando la terapia individuale – «da due a cinque volte la settimana», racconta Cattaneo – alla consulenza alle scuole e a supporto dei genitori, a domicilio e in sede: «Noi siamo gli esperti di autismo, ma gli esperti dei loro figli sono le famiglie». ARES d’altronde è sorella di ASI (Autismo Svizzera Italiana), che raggruppa le famiglie e organizza colonie, attività per il tempo libero, gruppi di autoaiuto. E poi ci sono l’attività di training individuale e d’équipe e i posti di stage presso la fondazione, che permettono ai giovani autistici di inserirsi progressivamente nel mondo del lavoro.
Le principali difficoltà sono di ordine finanziario e amministrativo. Se cantone e confederazione, come pure benefattori privati e famiglie, sostengono attivamente le attività di ARES, è anche vero che «le richieste di supporto sono cresciute in maniera stratosferica, aumentando a seconda delle prestazioni dal 70 al 230%». Non perché siano aumentati i casi, ma perché l’efficacia diagnostica e la sensibilità sociale migliorano progressivamente. «L’Assicurazione invalidità finanzia solo le prestazioni mediche, come l’ergoterapia, ma non supporta gli interventi pedagogici».
Maggiori risorse permetterebbero non solo di accrescere le ore di terapia e di varare nuovi progetti, ma anche di sviluppare nuove strutture ad hoc. Ad oggi in Ticino non esistono case-famiglia specificamente riservate a persone autistiche, «anche se ci sono progetti-pilota come la ‘Casa Arion’ di Otaf a Massagno, che dal 2016 accoglie adulti autistici in previsione di una loro vita indipendente sul piano personale e professionale»; Cattaneo la definisce «una scuola di vita», e specifica che per il futuro «potrebbe essere utile, anche in comunità “miste”, creare gruppi di pazienti autistici con bisogni analoghi. Non per ghettizzare, ma per ottimizzare le risorse e migliorare gli interventi. L’ideale sarebbe un centro di competenza cantonale che catalizzi l’assistenza alla persona autistica: ci stiamo lavorando».
Poi ci sono i casi più gravi. Come quello di Stefano Corti, 47 anni, che oltre a essere autistico soffre di un importante ritardo mentale e della mancata produzione dell’ormone tiroideo. Stefano non parla, ma ha una buona memoria visiva: per questo da anni in famiglia lo si aiuta a esprimersi tramite la Comunicazione Aumentativa Alternativa, basata sull’uso di foto e pittogrammi. Oltre a ciò, necessita di assistenza 24 ore su 24. «Ha vissuto circa trent’anni in un istituto residenziale e diurno», dice la sorella Manuela, con alti e bassi.
Nel 2017 la situazione però è precipitata. «Stefano stava male, aveva crisi fortissime e non si capiva il problema». Da lì, è stato tutto un susseguirsi di ricoveri psichiatrici e non: «Non è stato risolto nulla, anzi, Stefano ha perso 18 chili in quattro mesi». Quanto alle cure farmacologiche, «ne ha sperimentate di ogni tipo». Ma le sue condizioni hanno continuato a peggiorare. Al dolore si sono aggiunte le difficoltà economiche: «Dovevamo pagare una quota giornaliera per avere un posto letto in più nella camera di Stefano, per poterlo assistere. L’importo finale è stato molto alto e tutto a carico nostro».
Per Manuela e i suoi genitori sono stati mesi di rabbia, frustrazione e senso d’impotenza. Così, presi dallo sconforto per tutto ciò che stava accadendo, hanno deciso di riportare Stefano a casa propria. «È stato un periodo di buio totale, abbiamo dovuto ricominciare da zero». Stefano non era più in grado neanche di masticare. Il suo stato di salute non gli permetteva più di vivere con la mamma in quel momento, date le barriere architettoniche di casa. «Dovevamo capire subito, per il bene di tutti, che strada prendere».
Nonostante molti glielo sconsigliassero, e nonostante l’impegno richiesto, «abbiamo deciso di iniziare un progetto pilota in una nuova abitazione. Ho dovuto lasciare il lavoro per aiutare la mia famiglia in questa nuova sfida». Dopo vari mesi di ricerche, a inizio anno arriva la svolta: la Croce Rossa inaugura un nuovo centro terapeutico a Manno, per Stefano trovano un appartamento e anche sua madre può abitare alla porta accanto. «Abbiamo creato un’équipe: Stefano è assistito giorno e notte da personale qualificato, oltre a ricevere supporto dal medico di famiglia e da un ottimo psichiatra esterno».
Manuela ci dice che ora Stefano sta molto meglio: «Il peggio sembra essere passato, lui ha lottato per vivere. C’è ancora molto da fare per le persone autistiche, anche nelle strutture sanitarie, ma dobbiamo ringraziare quelle persone meravigliose che hanno creduto in noi e in questo progetto. Ora anch’io posso pensare un po’ alla mia vita, che spesso ho messo fra parentesi per aiutare mio fratello. Mi è venuto spontaneo avvicinarmi a lui negli anni, cercando di dargli l’anima» (la madre Fausta conferma: «Sono peggio di due gemelli!»).
Il sogno della famiglia Corti è creare una casa-famiglia, sul modello di quelle viste in Italia, per favorire l’inclusione invece dell’istituzionalizzazione, «un posto in cui coinvolgere le famiglie, in cui permettere a ognuno di sentirsi a casa sua». La strada è in salita, lo sanno anche loro, ma come dice Manuela: «Quante cose potremmo fare, se pensassimo meno all’impossibile».
Prima di tutto sgombriamo il campo da bufale e teorie superate. Anzitutto quella più in voga sui social network, che pretende di individuare una correlazione fra i vaccini e l’autismo. Balle: il bambino vaccinato non corre più rischi di «diventare» autistico (semmai corre più rischi di morire di morbillo e di polio, ma questo è un altro discorso). Neanche l’età dei genitori al concepimento è un fattore rilevante. Inoltre l’autismo «non ha nulla a che vedere con problemi relazionali fra madre e bambino, con presunte «madri frigorifero», anaffettive, che spingerebbero il bambino a isolarsi in se stesso», spiega il primario di pediatria EOC Gian Paolo Ramelli. Una teoria nefasta, che per decenni ha indotto assurdi sensi di colpa nei genitori e ha dettato risposte terapeutiche sbagliate.
«L’autismo è una condizione organica, ovvero qualcosa di determinato dal bagaglio genetico», spiega il dottor Ramelli: «La metà dei geni che abbiamo a disposizione sono quelli che determinano la maturazione dei circuiti cerebrali che influiscono sulle competenze sociali e relazionali. Gli esami genetici non ci permettono di determinare al 100% se c’è o meno un problema, ma al 30 sì. Va detto però che il disagio sociale non è necessariamente correlato a deficit cognitivi. Capire quali mutazioni comportano una prognosi negativa sarà musica del futuro». L’autismo può presentare conseguenze più o meno gravi, dalle forme più «lievi» di Sindrome di Asperger a casi in cui alle difficoltà sociali si affianca una grave compromissione delle funzioni cognitive e di linguaggio. Ma un approccio terapeutico precoce consente esiti molto positivi: «Abbiamo lavorato molto in Ticino con i pediatri, sensibilizzandoli e fornendo loro un questionario sviluppato in Canada con 23 domande specifiche sulle competenze sociali del bambino, che alla visita dei due anni permettono già di individuare eventuali casi “sospetti” e segnalarli al nostro servizio di neurologia», nota Ramelli. Ora «l’importante è aumentare i posti di presa a carico intensiva: molte ore di ergoterapia, logopedia, terapia comportamentale ogni giorno. Questo potrebbe migliorare l’inserimento sociale». Secondo Ramelli infine «i prossimi progressi verranno dalla genetica, dal comprendere quale componente della rete neuronale è geneticamente affetta nei casi di autismo».
«Nella fattoria di Everardo ci sono molte galline simpatiche e un saggio gallo che ha voglia di raccontare una storia. Un giorno nasce un bambino con un disturbo misterioso: l'autismo». Il re del mercato è una fiaba tutta ticinese, una storia di accettazione che mira a far conoscere l’autismo attraverso la delicatezza e la fantasia. L’ha scritta Gionata Bernasconi, autore, illustratore ed educatore presso ARES. Joel Fioroni, regista e gerente del Cinema Lux di Massagno, ne ha ricavato un divertente cartone animato disegnato da Pietro Mariani.
«La particolarità di questo progetto – spiegano i suoi creatori – è che il nostro protagonista, il bambino Giovanni, non cambia nell’arco del racconto. Sarà chi gli sta intorno ad acquisire consapevolezza e ad adattare i propri comportamenti favorendo la relazione con chi appare diverso». Il loro lavoro ha fatto il giro del mondo, da un festival del film all’altro. Il cofanetto (libro+dvd) è stato realizzato col sostegno di numerose istituzioni pubbliche e private. Si può ordinare in qualsiasi libreria ed e-bookshop, su siti online (ilredelmercato.com) o direttamente alla Fondazione ARES, che mette a disposizione anche altre pubblicazioni e vademecum utili a comprendere l'autismo. Fra queste segnaliamo Martino piccolo lupo (CARTHUSIA), fiaba anch'essa concepita da Bernasconi e illustrata da Simona Mulazzani.
A chi vuole saperne di più si consiglia inoltre Neurotribù - I talenti dell’autismo e il futuro delle neurodiversità di Steve Silberman (Lswr 2016), un eccezionale e leggibilissimo saggio sul tema. Oliver Sacks - il geniale neurologo che raccontò sul New Yorker la storia di Temple Grandin - lo ha definito «una storia travolgente e penetrante, proposta con rara partecipazione e sensibilità».