Ticino

Canapa, giustizia e politica... Perugini a tutto campo

Domani sarà il suo ultimo giorno da procuratore. Nostra intervista al ‘decano’ del Ministero pubblico

Antonio Perugini (Ti-Press/Crinari)
30 gennaio 2019
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«La giustizia deve non solo esistere, deve anche mostrarsi». Ed è per questo che Antonio Perugini non si è limitato a coordinare inchieste, a rinviare a giudizio, a stilare decreti d’accusa e d’abbandono. A fare cioè il magistrato inquirente. Se dal suo osservatorio, quello della Procura, intravedeva tendenze e fenomeni di rilevanza sociale non esitava a prendere pubblicamente posizione. Interveniva, insomma, nel dibattito. È il coraggio delle idee. E di manifestarle, anche quando c’è chi ti vorrebbe, per il ruolo istituzionale che svolgi, unicamente chino su codici e verbali di interrogatorio.

La giustizia ticinese sta per perdere un pezzo di storia: Perugini, classe 1954, per quasi trent’anni pp, si appresta ad andare in pensione. Le dimissioni, che ha presentato la scorsa estate, diverranno effettive con il 1° febbraio. Per lui – residente nel Bellinzonese, cinque figli, nonno di sette nipoti – quello di domani sarà così l’ultimo giorno al Ministero pubblico. Giovedì lascerà definitivamente l’ufficio al primo piano del vetusto edificio del Pretorio, quello della capitale cantonale, ubicato in Viale Franscini. Dopo aver condotto un sacco di procedimenti, sentito imputati, testimoni, persone informate sui fatti, ordinato arresti e perizie... «Farò l’homo faber – dice intervistato dalla ‘Regione’ e da ‘RadioTicino’– . Mi dedicherò a ciò di cui finora per ragioni di tempo mi sono occupato assai poco: giardinaggio, manutenzioni e, soprattutto, meccanica, che è sempre stata la mia passione». Tra le prime attività, la cura di quel Volkswagen Maggiolino che per anni si poteva veder parcheggiato fuori dal Pretorio. Segno che Perugini era al lavoro. In magistratura dal 1990, quando c’erano ancora le Procure sotto e sopracenerina, sostituto procuratore generale quando a dirigere il Ministero pubblico era John Noseda, Perugini, area Ppd, era uno dei quattro candidati alla carica di pg. Per finire, lo scorso febbraio, il Gran Consiglio ha eletto alla guida della Procura Andrea Pagani, in quota liberale radicale. «Un addio amaro il mio? Assolutamente no – assicura Perugini –. È un addio sereno».

Eppure la sua mancata elezione a procuratore generale ha sorpreso più di uno. L’autorevolezza e l’esperienza del candidato Perugini erano fuori discussione, la Commissione di esperti l’aveva considerato il più idoneo (“particolarmente idoneo”) dei quattro aspiranti pg a ricoprire la carica, però il parlamento ha fatto un’altra scelta. Cos’ha prevalso? Gli accordi fra partiti o la debolezza del Ppd, che la sosteneva, non essendo riuscito in parlamento a far convergere la maggioranza dei voti su di lei?
È una domanda impegnativa, che però non dovreste porre al sottoscritto. Il Gran Consiglio, al quale compete l’elezione dei magistrati, è sovrano nelle nomine di procuratori e giudici e ha fatto liberamente la sua scelta. Avevo avanzato la mia candidatura anche come gesto di responsabilità, ritenendo che la mia pluriennale esperienza come pp potesse risultare utile alla conduzione del Ministero pubblico. Il parlamento ha optato per un altro candidato e, ripeto, legittimamente. Aggiungo che la decisione del Gran Consiglio mi ha reso più semplice la decisione sulla tempistica della mia partenza: pur potendo restare in magistratura fino a 70 anni, ho optato per l’età canonica dei 65.

Nelle audizioni davanti ai gruppi parlamentari lei avrebbe garantito di fare il pg, in caso di elezione, solo fino al 2020, cioè sino al prossimo rinnovo delle cariche in seno al Ministero pubblico: questo può aver condizionato la decisione del Gran Consiglio?
È assolutamente necessaria una precisazione. Il bando di concorso concerneva l’elezione di un procuratore generale con durata della carica fino al 2020, ovvero sino alla scadenza dei mandati decennali dei procuratori. Ai gruppi parlamentari ho detto: “Ho avanzato la mia candidatura attenendomi alle condizioni indicate nel bando di concorso. Se voi mi chiedete di postulare una candidatura che non è a concorso, vi dico che ne riparleremo quando ci sarà il prossimo bando”. Probabilmente c’è chi ha interpretato diversamente le mie parole.

Se lei fosse stato designato pg, nel 2020 si sarebbe ricandidato?
Penso che sarebbe stato doveroso e responsabile da parte mia non abbandonare l’ufficio dopo appena due anni. Poi non si sa mai cosa la vita ti può riservare.

Nomina dei magistrati: il sistema vigente (elezione ad opera del Gran Consiglio previo preavviso delle candidature da parte di una Commissione di esperti) va cambiato o mantenuto?
Non ho la pretesa di dare ricette. Posso solo dire che non esistono sistemi perfetti. Esistono solo sistemi perfettibili. È però fondamentale che tutti garantiscano l’indipendenza della magistratura affinché non ci siano interferenze partitiche. Interferenze che, per quanto mi riguarda, non ci sono mai state.

La riforma ‘Giustizia 2018’ annunciata alcuni anni fa dal capo del Dipartimento istituzioni Norman Gobbi: opera incompiuta?
La magistratura, nei vari gruppi di lavoro, ha fatto la sua parte. Non so poi perché e dove il tutto si sia arenato. Forse a causa dei costi. Tuttavia c’erano misure finanziariamente neutre e per questo mi sarei aspettato che venissero portate avanti.

L’anno appena trascorso è stato contraddistinto da alcune per così dire invasioni di campo nei rapporti fra poteri dello Stato. Il caso è quello dei rimborsi ai membri del governo finito sotto la lente anche del Ministero pubblico, che ha poi decretato l’abbandono del procedimento. In marzo intervenendo in parlamento l’allora vicepresidente del Consiglio di Stato Claudio Zali, ex giudice, aveva criticato le modalità dell’inchiesta della magistratura: un’inchiesta teatrale, l’aveva definita...
Queste uscite rattristano. Osservo due cose. La prima: compito del magistrato inquirente è indagare quando ci sono delle ipotesi di reato, non è invece compito suo risolvere problemi che la politica non ha voluto o non riesce a risolvere. La seconda: è sconfortante dover assistere, per la prima volta in trent’anni, a un certo degrado della considerazione nei confronti della magistratura. Per correttezza certe critiche andavano fatte in un contesto dove era possibile una replica.

Beh, la replica c’è stata un paio di mesi dopo, con l’intervento tutt’altro che tenero del neopresidente del Tribunale di appello Mauro Mini all’apertura dell’anno giudiziario 2018-2019...
In quell’occasione il nuovo presidente del Tribunale d’appello ha richiamato la necessità che la separazione dei poteri garantisca anche il rispetto dei reciproci compiti.

Prima ci ha detto che “la giustizia deve non solo esistere, deve anche mostrarsi”. Mostrarsi non solo quando si tratta di comunicare l’esito di un’inchiesta specifica?
Credo che come magistrati dobbiamo non solo fare indagini e portare a processo chi, alla luce degli elementi da noi raccolti, riteniamo colpevole di un reato, ma anche rendere attenta l’opinione pubblica del possibile impatto negativo che certi fatti, certi fenomeni possono avere sulla società. Fenomeni di cui, data la nostra funzione, cogliamo in anticipo segnali e sviluppi. Così si è fatto per esempio in relazione all’operazione Indoor (il contrasto alla coltivazione di canapa con elevato tenore di Thc, ndr). È la prevenzione, un compito che spetta pure a magistratura e forze dell’ordine.

Una delle grosse inchieste che ha coordinato è stata quella sul tragico rogo del 2001 all’interno della galleria stradale del Gottardo. Immaginiamo che la decisione di Berna di raddoppiare il tunnel l’abbia sollevata?
Non ho mai nascosto di essere favorevole al raddoppio: proprio indagando su quella tragedia, che più di altre mi ha segnato umanamente, avevo avuto la netta percezione di quali potessero essere i rischi, i pericoli di un tunnel della lunghezza del Gottardo con traffico incrociato.

Cinque anni fa definì i social ‘lavatoio mondiale’, riferendosi alle molte querele per affermazioni pubblicate online...
L’evoluzione è preoccupante: il numero di querele è esploso. Reati contro l’onore, ma anche truffe, estorsioni e minacce via Internet. Il problema è culturale: una società non può pensare di poter lasciare campo libero a qualsiasi sfogo.

Come uscirne?
L’educazione è fondamentale. Alla mia generazione veniva insegnato che bisogna pensare prima di parlare. Oggi manca il tempo e l’abitudine per farlo. Inoltre è passato il concetto che chi urla di più, vince. D’altronde c’è un presidente che governa attraverso cinguettii...

Lei ha condotto anche l’inchiesta Indoor. Cosa ne pensa della canapa light e del successo che sta riscuotendo?
È uno degli ulteriori alibi dietro cui si nasconde la volontà di depenalizzare e/o liberalizzare l’uso di canapa stupefacente. Ed è per questo che lo ritengo un metodo subdolo. Preferirei allora che si dicesse apertamente qual è il fine ultimo, ovvero depenalizzare tutte le droghe. Obiettivo che, se realizzato, non può che portare a guai seri.

Il 1° aprile 2011 pubblicammo in cronaca una sua intervista: “Addio Bellinzona, Perugini va a Lugano”. Un pesce d’aprile basato però su una storia vera: la sua nota contrarietà alla centralizzazione di tutti gli uffici del Ministero pubblico a Lugano. Che effetto ebbe quello scherzo?
Devastante. Nel senso che ci cascò tanta gente, anche dell’ambiente giudiziario. Non me l’aspettavo. Però la vostra domanda mi permette di dire una cosa che nessuno mi ha mai chiesto: la mia ostinata volontà di rimanere a Bellinzona era basata sulla mia convinzione che il Ministero pubblico doveva, e deve, essere a contatto con la società, ‘distribuito’ sul territorio. Non lo si può centralizzare come se fosse un tribunale.