Storie di lavoro gratuito, stage col miraggio di un posto. Giovanna: 'Mi spiace, perché ho contribuito a portare in Ticino condizioni di lavoro italiane'
Due storie di lavoro gratuito in Ticino, di chi, anche neolaureati, rischia di passare di stage in stage, con la promessa di un lavoro che non arriva mai. Dagli architetti italiani sfruttati a Lugano alla giungla di web designer.
Laureata in architettura, Giovanna ha studiato in Italia e all’albo degli architetti di Milano vede un annuncio per un posto a Lugano in uno studio appena avviato. «Il contratto era per un anno da stagista dopo di che o restavo come stagista o a tempo indeterminato. Il salario era di mille franchi al mese». La 27enne accetta, ma da subito capisce che non sarà facile. Il titolare è un italiano. «Mi umiliava, diceva che non ero buona a nulla e prendeva solo stagisti per darci un’impronta giusta. Di fatto, mi è stato accanto un pochino il primo mese poi me la sono cavata da sola. Intanto il team aumentava», spiega la professionista che resterà un anno e 8 mesi vedendo sfilare 17 persone, tutti stagisti italiani pagati pochissimo. Dopo 11 mesi Giovanna si vede rinnovare il contratto e lo stipendio sale a 2’500 franchi. Dice: «È stato una sorta di riconoscimento». Ma il lavoro aumenta e aumenta ancora. «Redigevo le domande di costruzione da inviare in Comune e dovevo seguire altri sette stagisti, lui era fuori a fare la direzione lavori». Ad un certo punto, non ce la fa più: «Quando ho iniziato a capire che mi stava sfruttando, gli ho parlato. Lui mi ha fatto sentire una che pretende troppo. So che è difficile da capire, ma in Italia si lavora gratis, a Lugano almeno avevo una paga». Giovanna va in disoccupazione e si rivolge ai sindacati che la aiutano. «Mi spiace perché ho contribuito a portare in Ticino le condizioni di lavoro italiane», conclude.
Dopo il liceo, 5 anni di formazione all’accademia Belle Arti a Milano e poi un girone di lavori in Ticino mal pagati conditi da tante promesse. Un nuovo corso alla Supsi come ‘web developer’ pagato dalla disoccupazione e stage prolungati che non diventano un lavoro salariato a tempo pieno. Quello della grafica e web designer Laura, 40enne, è un percorso da vera combattente in una giungla di precariato. La incontriamo a Bellinzona e tra documenti e foto ci illustra le sue peripezie nel mondo del lavoro. Laura approda attraverso la disoccupazione in una ditta che produce una rivista, il suo ruolo è quello di assistente di direzione. Prima dello stage, le vengono chieste delle prove – giornate pagate 30 franchi, nulla o con prodotti – deve seguire manifestazioni in Ticino e a Milano. Dopo le prove c’è la settimana di stage, pagata dalla disoccupazione. Quando finisce il titolare le fa una proposta. «Mi disse, resta in disoccupazione, ti regalo alcune bottiglie di vino e continui a lavorare qui, tanto chi ti vede se stai in ufficio?». Laura rifiuta ma il titolare insiste: «Devi venirmi incontro ora non posso assumerti ma se hai pazienza vediamo». Laura è sconcertata dalla proposta, che altri accettano. Con lei in ufficio – ci racconta – c’è una ragazza con un bachelor in marketing, lavora senza contratto e riceve uno stipendio di stage perenne: all’80% è pagata 1’800 franchi al mese. «Rimaneva lì perché pensava di non trovare altro». Segue un’altra brutta esperienza, in un’agenzia pubblicitaria, una start up appena nata, dove viene mandata anche in questo caso dalla disoccupazione. La promessa iniziale è “fai uno stage di una settimana e poi ti assumo”. Le settimane diventano tre, alla fine della terza: “Fai due mesi al 50% ma ho bisogno all’80%”. Siamo in febbraio, la promessa è che in autunno da metà tempo passa al 100%. A settembre Laura chiede di nuovo del contratto. Il titolare: «Settimana prossima te lo faccio. Ci sono nuovi investitori in Germania, avremo un ufficio nuovo». Di promessa in promessa si arriva a fine anno e la ditta fallisce. «Mi doveva 8mila franchi. So che il titolare ha riaperto una nuova ditta e continua con il medesimo sistema attingendo personale dalla disoccupazione e lasciandolo poi a casa senza pagare lo stipendio. Anche questa seconda ditta è fallita a fine maggio di quest’anno, ma ne ha riaperta già una terza». Laura si rivolge al sindacato Unia che la aiuta. La due ditte vengono segnalate all’ispettorato del lavoro e ci sono ispezioni. Oggi Laura lavora per un sito al 50% e si trova bene. «Non voglio più fare la grafica perché non è una professione riconosciuta, vieni sfruttata anche se hai una buona formazione. Va bene come hobby ma non per vivere. Ho mangiato tanta rabbia. Ho dovuto fare tante rinunce perché non avevo un salario decente. Il sindacato c’è stato e mi ha aiutata», conclude Laura (nome noto alla redazione).