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A processo l'ufficio cambi accusato di ‘smurfing’

L'imputato smezzava le ingenti somme di denaro in cifre più piccole, in modo da aggirare i controlli antiriciclaggio

L’uomo era già stato condannato in passato
(Ti-Press)
26 ottobre 2023
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Quando si gestisce un ufficio cambi, la legge prevede che vengano effettuati controlli specifici quando le cifre superano i 5mila franchi. Questi controlli servono a verificare la provenienza del denaro, e prevenire in tal modo il riciclaggio. E proprio per non aver effettuato questi controlli, l'imputato al centro del dibattimento celebrato oggi, giovedì, al Tribunale penale federale, era già stato condannato nel febbraio 2018 a una pena pecuniaria sospesa, più precisamente per l'imputazione di carente diligenza in operazioni finanziarie. Come mai si trovava in aula allora, se era già stato condannato? Perché dal Dipartimento federale delle finanze (Dff) è arrivata un'altra decisione penale, in cui è accusato di aver comunicato informazioni false all'organismo di autodisciplina, e di non aver informato l'Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (Mros) nel contesto di alcune operazioni di cambio valuta sospette. Decisione contro cui l'uomo, un cittadino italiano di 59 anni residente nel Mendrisiotto, ha deciso di ricorrere. Vista la similarità tra i due procedimenti, l'avvocata della difesa, Rossella Dressi Petrini, ha avanzato l'ipotesi di violazione del principio ne bis in idem, secondo cui una persona non può essere processata due volte per gli stessi fatti. Tesi respinta dalla giudice unica Fiorenza Bergomi.

Incastrato da una denuncia anonima

Per andare all'origine della storia bisogna tornare al 2015, anno in cui il 59enne, tramite il suo ufficio cambi (con sede principale a Novazzano), ha registrato, in diverse occasioni, cambi che arrivavano a superare anche i 100mila franchi. E lo avrebbe fatto attraverso la tecnica dello smurfing, ossia l'atto di dividere la cifra in un ammontare più piccolo, in modo da farlo passare inosservato o, nella fattispecie, evitare di dover effettuare i dovuti controlli. L'imputato sostiene di averlo fatto perché il cliente gli avrebbe fatto la promessa, mai mantenuta, di portargli tutta la documentazione necessaria in seguito. Non avendola mai ricevuta, sarebbe stato ‘costretto’ a registrarli in tal modo, non potendo effettuare i dovuti controlli.

A portare alla luce la vicenda, una denuncia anonima all'Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), causata da due transazioni sospette, di valore poco inferiore ai 5mila franchi, effettuate a pochi secondi l'una dall'altra e che indicavano un potenziale caso di smurfing. Le conseguenti indagini hanno fatto emergere che operazioni del genere erano state eseguite in almeno altre quattro occasioni. «All'epoca avevo appena aperto – ha dichiarato in aula il 59enne –, e riconosco di aver sbagliato a non fare le dovute verifiche. Ho agito per inesperienza».

Tutt'altro che incensurato

Come detto, non è però per questi fatti che il Dff – rappresentato in aula dall'avvocata Barbara Gianolini – ha portato l'uomo in aula, ma per questioni collaterali a essi. In primis, per aver fornito presunte informazioni false, in tre diverse occasioni, alle autorità di vigilanza, e poi per non aver segnalato al Mros l'attività sospetta e potenzialmente illecita dei suoi clienti. Uno di questi è stato per altro condannato in Italia per riciclaggio e associazioni con la Camorra milanese. Anche lo stesso imputato, va detto, non è esattamente incensurato, dal momento che alla fine degli anni 90 aveva scontato in Italia quattro anni di carcere per bancarotta fraudolenta, ed è coinvolto in un'altra inchiesta ticinese tutt'ora in corso.

Più precisamente, le tre presunte dichiarazioni false sono le seguenti: al momento del primo controllo da parte dei revisori, non trovando la registrazione dei due cambi sospetti nella contabilità, l'uomo ha dato come giustificazione un guasto tecnico, che non ha mai trovato riscontro; ha in seguito dichiarato che la sopracitata operazione di smurfing – eseguita da un suo dipendente presso la filiale di Chiasso – sarebbe stato un caso eccezionale, mentre l'inchiesta ha rilevato che tale tipologia di operazioni erano state svolte almeno quattro volte; infine, tramite il suo legale, ha affermato che la sua società di cambio non svolgeva più tale attività allo sportello, cosa rivelatasi anch'essa non vera.

L'accusa: ‘Non ha dimostrato scrupoli’

«La società dell'imputato – ha dichiarato Gianolini durante la requisitoria –, avrebbe dovuto al più presto eseguire dei controlli sul retroscena economico delle operazioni e la loro plausibilità». Secondo l'accusa non vi sarebbero dubbi sull'intenzionalità dell'imputato nel non segnalare le transazioni, e non avrebbe dimostrato scrupoli nel fornire informazioni false e scaricare la colpa sul proprio dipendente. Anche perché «il rifiuto a fornire documenti di identità, lascia logicamente presumere che si tratti di riciclaggio, specialmente quando si parla di cifre così grandi, versate in un piccolo ufficio cambi».

«I casi di smurfing riguarderebbero solo quattro operazioni su diverse migliaia – ha replicato la difesa durante l'arringa –, quindi non è falso dichiarare che si tratti di casi eccezionali. Inoltre, aveva accertato l'affidabilità del cliente attraverso l'azienda per cui esso lavorava, e gli era stato promesso più volte che i documenti sarebbero arrivati».

L'accusa ha chiesto infine una pena pecuniaria di 150 aliquote da 240 franchi (36mila franchi totali) sospesa per due anni, più una multa da 15mila franchi, mentre la difesa ha chiesto il proscioglimento totale. La sentenza dovrebbe arrivare nelle prossime settimane.