Pronta a cedere il testimone ad Antonia Nessi, la storica dell’arte ci accompagna attraverso i suoi trent'anni di direzione del Museo di Ligornetto
Riassumere trentun anni in una pagina è impresa assai ardua, ma la dedizione nei confronti del generoso lascito dell’artista Vincenzo Vela per Gianna A. Mina non è mai tramontata, e si traduce anche nelle parole che coronano la cuspide della propria carriera come direttrice del Museo di Ligornetto. Prima di congedarsi dal ruolo che assumerà agli inizi di novembre Antonia Nessi, la storica dell’arte si è concessa un momento per volgere lo sguardo agli inizi, alle sfide, ai cambiamenti e ai traguardi che hanno reso lo spazio – e lo scultore – oggi accessibile a tutti.
Quali sono le emozioni che la accompagnano in questo momento di congedo da oltre 30 anni al timone del Museo Vela? Cosa le mancherà di più?
Le emozioni che mi accompagnano sono molteplici. Provo innanzitutto un sentimento di profonda gratitudine per questi anni intensi, interessanti, e necessari nella loro complessità, impiegati soprattutto nella definizione dell'identità di questa istituzione. Sono molto riconoscente per l'opportunità che mi è stata data di contribuire, spero in modo utile, a posizionare quella che fu la casa-museo dello scultore Vincenzo Vela e della sua famiglia, poi diventata istituzione federale, non solo nei suoi territori di riferimento (Svizzera e Italia), a cavallo di un confine nazionale, ma anche al di fuori di essi come lo era stato alle origini, quando a Ligornetto affluivano visitatori anche da molto lontano.
Accanto all’evidente tristezza nel lasciare questo incarico, è grande la soddisfazione nel constatare come oggi l’opera dello scultore sia nuovamente sotto i riflettori. Numerosi ricercatori giovani se ne occupano, le sue opere vengono chieste in prestito, e continuiamo a pubblicare molto su di lui. C’è dunque una sensazione duplice: da un lato l’essere arrivata a compimento di un percorso, ma al contempo vederne un altro che prende forma.
Sono stati 31 anni – mi piace l’‘uno’ che spezza la cifra tonda – stimolanti, anche faticosi, spesi a cercare di ‘comprendere’, e possibilmente restituire, le tante intenzioni (in senso concreto e, ci tengo a sottolinearlo, anche ideale) di questa famiglia straordinaria di artisti, grazie alla quale è nato quello che per decenni è stato il primo e unico museo in Ticino. Mi mancherà certamente lo scambio con il pubblico e con il piccolo ma validissimo team cresciuto negli anni, dopo un lungo periodo iniziale in cui sono stata sola. Insieme abbiamo creato una comunità appassionata e molto coesa.
In oltre un trentennio di dedizione nei confronti del generoso lascito dell’artista quali sono state le sfide più significative che ha dovuto affrontare alla direzione di questo spazio?
Trent'anni fa il Ticino era diverso, meno abituato a occuparsi di musei; non esistevano ancora il m.a.x. museo di Chiasso, il Masi di Lugano e altri musei-spazi privati che ora arricchiscono il territorio; e mancava soprattutto un pensiero di rete, che personalmente mi interessa molto. Gli inizi sono stati difficili. La scultura dell’Ottocento all’epoca non veniva considerata. Diversamente da contesti culturali e nazionali quali la Francia, l’Italia e altri ancora, il monumento pubblico e la ritrattistica del potere in scala monumentale, nel nostro Paese, federalista e democratico, non ha una tradizione, un fatto che per Vela è stato penalizzante. E tuttavia è alla Confederalzione che Spartaco Vela ha legato la villa e le collezioni, interessante vero?
Ci siamo dunque occupati sin dal principio di scardinare dei pregiudizi costrittivi nei suoi confronti. Ad esempio che fosse uno scultore retorico (che non è mai stato), principalmente post-romantico (vero solo in parte), stucchevolmente realista e pertanto del tutto inattuale (definizione errata). Lo studio costante e polifonico del suo lavoro ha fatto piazza pulita di tante semplificazioni.
Ricordo che nel 1992, alla mia nomina, non poche persone mi commiserarono. Credo di poter affermare che oggi il Museo Vincenzo Vela venga percepito e vissuto anche come uno spazio vivo di incontro tra arti, temi anche urgenti, pubblici diversi e singole persone. Lungi dall’essere un merito personale, questo non rappresenta altro che ciò che rende oggi queste istituzioni – i musei – così necessarie e interessanti nella nostra società. Villa Vela a metà Ottocento non era un’istituzione univoca e pertanto non ho mai creduto che lo dovesse essere oggi. Trent’anni fa il margine di azione creativa era molto ampio, oggi forse lo è meno, considerato il ‘corsetto’ di certa digitalizzazione e dei processi amministrativi che imprescindibilmente ci impongono. Ma questo è un fatto che accomuna tutte le istituzioni pubbliche e con esso si convive.
Ci sono sfide che portano poi a delle rivoluzioni positive in termini di cambiamento, è stato anche questo il caso del museo?
Uno dei primi passi intrapresi è stato il completamente del restauro di tutte le collezioni, che per i primi cinque anni dal mio arrivo ha visto impegnate oltre una ventina di persone, un’esperienza bellissima. In seguito abbiamo chiarito l’identità del luogo, che risultava essere un ibrido con pochissime tracce ‘pseudo’ originali, viziate da diversi rimaneggiamenti. La ristrutturazione, terminata nel 2001, firmata dall’architetto Mario Botta ha chiarito la funzione degli spazi in chiave aggiornata, rispondendo a esigenze di varia natura, alle quali un museo deve rispondere per poter entrare in dialogo con altre istituzioni simili. Si sono pertanto create le condizioni ottimali per ospitare esposizioni temporanee (tra le prime ricordo una collaborazione con il Musée d’Orsay) e presentare la collezione permanente in maniera filologica ma equilibrata, onde ricentrare l’attenzione sulla densità dell’ottagono centrale, nel quale sono cristallizzate – ancor oggi – le intenzioni programmatiche dello scultore.
Lo stesso Vela aveva concepito la sua villa con la triplice funzione di casa, spazio creativo (atelier) e museo privato, reso tuttavia immediatamente fruibile dal pubblico. Ecco, queste tre intenzioni le abbiamo traghettate nel museo che è oggi: un luogo votato allo studio e alla ricerca, alle esposizioni d’arte e al dibattito pubblico.
A proposito di esposizioni: quali sono stati i criteri scelti per l’organizzazione delle mostre?
Abbiamo scelto tre filoni preferenziali: scultrici e scultori coevi a Vela (Sophie e François Rude, Henri de Triqueti, Augustus Saint-Gaudens, Marcello e molti altri); monografiche dedicate ad artiste e artisti contemporanei e mostre a tema concordanti con il nostro tempo o con aspetti insiti nella poetica di Vincenzo Vela. Ove possibile abbiamo funto da cerniera tra contesti culturalmente e linguisticamente diversi, e studiato con un occhio di riguardo anche figure marginali, ad esempio Natale Albisetti o Ermenegildo Peverada, ma sempre con occhio rivolto al rapporto con il ‘padrone di casa’.
Non siamo una Kunsthalle e pertanto abbiamo ragionato su figure con un percorso professionale già consolidato e mai esposti in ampie mostre monografiche (per evitare il rischio di dimenticarne alcuni, mi permetto di rimandare al nostro sito www.museo-vela.ch). Un terzo filone è stato poi dedicato all’approfondimento di temi che ci sono sembrati interessanti (ad esempio il rapporto tra corpo e potere, la rappresentazione dei fenomeni naturali, il rapporto tra letteratura e arti visive – in particolare la fotografia, di cui il museo conserva una collezione molto interessante –. Non mi dilungo sulla mediazione culturale, che è stata una nostra ‘missione’ sin dall’inizio e che nel frattempo – grazie a collaborazioni interessanti – tocca numerosi ambiti, anche materia di studio (mi riferisco alle ricerche sul rapporto tra demenze ed espressioni artistiche o all’affidamento di progetti di integrazione svolti su decenni). E con particolare affetto faccio cenno alle attività ‘collaterali’, che si sono arricchite toccando ambiti diversi, tra i quali la musica da camera, che ha sempre mantenuto un posto privilegiato, non solo attraverso concerti memorabili ma anche con la creazione di composizioni commissionate a compositrici e compositori ticinesi.
Tornando a lei, nell’orizzonte sconfinato delle possibilità che la attendono, quale sarà la sua prossima avventura?
Anzitutto vorrei prendere fiato... E poi, se ve ne sarà la possibilità, c’è quel mondo sconfinato di scultrici e scultori meno noti (attivi tra la metà dell’‘800 e la prima metà del ‘900), che anche in Svizzera hanno lasciato nuclei di opere, che aspettano di essere rivalutati e resi accessibili. Perché l’amore per la disciplina che mi è propria, la storia dell’arte, non è certo tramontata, e anzi, si nutre delle ricerche di tanti talentuosi giovani ricercatrici e ricercatori che non vedo l’ora di incontrare.