A metterle in scena al Teatro Sociale di Casvegno, a Mendrisio, gli studenti del modulo Salute mentale della Supsi
Un momento prezioso di riflessione sulla sofferenza. A metterlo in scena al Teatro Sociale di Casvegno, a Mendrisio, gli studenti di Lavoro sociale della Supsi col sostegno della Socioterapia e del Club 74. Della lettura che le nuove generazioni hanno fatto dei non facili testi classici ne abbiamo parlato con il professor Lorenzo Pezzoli, responsabile del modulo di Salute mentale del corso di laurea in Lavoro sociale della Supsi.
Come è nata l’idea di abbinare lo studio degli allievi del modulo Salute mentale al teatro?
Molti anni fa da un’idea di Graziano Martignoni, poi negli ultimi dieci anni ha vissuto uno sviluppo attraverso una collaborazione con il Conservatorio della Svizzera italiana e un lavoro più mirato di analisi e di riscrittura delle tragedie, anche in chiave moderna, avvalendoci della supervisione del regista Fabrizio Rosso per la messa in scena. La tragedia greca parla del confronto dell’uomo con la sofferenza, con i nodi dell’esistenza umana, con temi come la solitudine, l’abbandono, la violenza… Ismail Kadaré sottolinea come nella tragedia troviamo i grandi tabù a cui l’uomo tenta di dare risposta e coi quali si confronta. Non è un caso che le tragedie parlino di dolori estremi: la morte e la follia. Ciò che colpisce, a secoli di distanza, è che la tragedia resta fedele a se stessa, anche nel confronto con generazioni in apparenza estranee. Se un testo parla ancora dopo più di duemila anni, se ancora muove e spinge, se svela e fa risuonare, allora quel testo non è solo il prodotto di una cultura, ma appartiene a qualcosa di più profondo che poi, da una cultura, viene sviluppato e declinato, come se la tragedia avesse ancora da svolgere la sua funzione di orientatrice di sguardi, di spostamento di visuale, di evocatrice di domande.
C’è tanta ‘attualità’ nei testi presentati.
Le tragedie rompono la loro temporalità e arrivano a noi con una attualità a volte sconcertante. Raccontano, con efficacia, drammi come la guerra e la desolazione che porta con sé. Lo esprime bene l’opera di Sofocle ‘Le Trachinie’, che ha ricevuto il miglior premio dalla giuria e che riferisce della condizione delle donne umiliate, rese mute. Perché la violenza, ce lo ricordava Primo Levi, ha la capacità di eclissare la parola. Ma fa emergere anche altri temi di estrema attualità come nel ‘Prometeo incatenato` messo in scena in un ospedale psichiatrico degli anni Sessanta tematizzando la contenzione fisica con cinghie ai polsi, evocando parimenti tutte quelle sofferenze della vita, del corpo e dello spirito, che inchiodano e mettono all’angolo. Lo stesso è valido per le altre tragedie rappresentate che hanno portato l’attenzione sulla nostra vita così apparentemente lontana dal 400 a.C., ma in fondo così sorprendentemente accomunata dalle grandi questioni dell’esistenza che non si esauriscono nel tempo perché l’uomo le porta costantemente con sé, dentro di sé.
L’impegno che i ragazzi hanno dimostrato travalica il loro acerbo rapporto con il mondo. Come possono raffigurare questi struggenti sentimenti in modo così diretto?
Le nuove generazioni hanno una sensibilità straordinaria a intercettare le contraddizioni della vita, a provocare domande scomode. È come se capissero che quelle storie così lontane nel tempo li aiutano a mettere parole e testo a quanto sentono muovere dentro di loro, che a volte è così difficile da decifrare. Incontrare le tragedie è un antidoto possibile alle tante anestesie della vita che, soprattutto oggi, ma non solo oggi, vengono offerte per non pensare. Dalle sostanze alle tecnologie mal utilizzate, si perde l’occasione di maturare, di costruire dentro di sé uno sguardo che non solo permetta un percorso personale, ma aiuti anche ad accompagnare gli altri in questo percorso. E per chi si appresta a diventare educatore o assistente sociale è davvero prezioso questo processo e questo esercizio. Lo è anche se faticoso. L’uomo, del resto, e cito Carl Gustav Jung, cresce secondo la grandezza del compito che gli viene affidato. Poi certamente occorre sostenere, incoraggiare, offrire gli strumenti, a volte anche accogliere i sentimenti non sempre facili che, nell’esecuzione del compito, emergono.
I ragazzi hanno espresso grande familiarità nella recitazione ma anche nel ballo, nel canto, nella regia.
È una sorpresa vedere questa familiarità che alcuni giovani dimostrano nel calcare le scene, altre volte è una conferma di come ci sia una disposizione alla creatività al di là di una pratica personale o di un’esperienza coltivata tra le passioni e gli hobbies extrascolastici. Credo che quando i giovani sentono che un messaggio merita di essere trasmesso, allora si mostrano capaci di mettersi in gioco con una grande generosità e capacità, anche al di fuori dalla loro comfort zone.
Ha parlato di un teatro che mette in scena qualcosa di finto ma non di falso. Assistendo alle rappresentazioni, ci siamo ritrovati nella precarietà di un equilibrio fra le luci e le ombre delle nostre vite. È la ‘condanna’ dell’uomo moderno?
Ho citato un aforisma di Gigi Proietti. In scena non ci sono morti "veri", violenze "vere", perfino le spade sono finte. Ma allora perché il finto del teatro non è falso? Perché in quello che viene rappresentato c’è la verità dell’animo umano, delle relazioni, della vita. Novalis scriveva che il teatro è l’attiva riflessione dell’uomo su se stesso perché in quella finzione l’uomo si svela a se stesso. E qui sta la questione.
Quanto lavori di questo tipo aiutano i giovani ad avere accesso a se stessi?
L’accesso a se stessi è un cammino continuo di ricerca e di esplorazione. Per chi lavora nelle relazioni di aiuto in particolare, avere conoscenza di sé è indispensabile. Infatti il gesto di cura, di accoglienza, di sostegno e di accompagnamento che si eserciterà nella vita professionale ha bisogno di consapevolezza, attenzione e misura. Per questo nella formazione si cerca di accompagnare a un incontro con le proprie parti profonde, là dove nasce e sgorga anche il desiderio di occuparsi degli altri.
Ci ha colpiti in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato la mancanza, come citato nelle pièce, di comunicazione, di scambi di sguardi, di empatia e compassione. Lo vede anche lei?
L’altro come estraneo, sconosciuto e nemico… A volte mi colpisce molto come l’altro venga degradato nella nostra società, sempre di più e sempre più drammaticamente, e facendo così questo altro finisce per raggiungerci attraverso il registro della paura e della minaccia. Tuttavia, l’altro contiene anche il registro del desiderio, come abbiamo visto bene durante la pandemia e come sappiamo in fondo tutti. L’esercizio della relazione attraverso l’esperienza della vicinanza, del contatto, dello scambio di sguardi, ma anche nella fatica di una continua mediazione con il proprio interlocutore è qualcosa di vitale. Soprattutto per chi si impegnerà professionalmente nel campo del Lavoro sociale. Senza mai dimenticare che l’altro, l’estraneo, lo sconosciuto, prima di essere qualcuno che sta fuori è qualcuno che ci abita dentro. Allora si entra nel campo della vita che è anche il campo della tragedia, certamente, il campo delle innumerevoli e laceranti tragedie, da quelle intime a quelle sociali, ma anche della speranza, del riscatto, della cura.