Sulla confisca del palazzo di Chiasso il Tribunale federale dà ragione al fratello dei componenti della cosca. Ci sarà un nuovo giudizio
Il palazzo dirimpetto alla stazione di Chiasso è entrato (suo malgrado) nella storia. E di sicuro resterà come memento per la gente della regione che nel 2017 ha scoperto di dover fare i conti, anche da queste parti, con l’onda lunga della criminalità organizzata. Transazione immobiliare (dello stabile) e movimenti di denaro sono avvenuti senza che nessuno se ne avvedesse o sospettasse qualcosa. Neppure l’ex fiduciario della cittadina, Oliver Camponovo, rimasto invischiato nella vicenda – che nel dicembre dello stesso anno l’ha portato davanti alla Corte del Tribunale penale federale (presidente il giudice Giuseppe Muschietti, a latere i colleghi Giorgio Bomio e Claudia Solcà), nel solco di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura della Repubblica italiana –, poteva o doveva conoscere l’origine dei soldi passati per il suo ufficio. Su questo punto il Tribunale federale oggi fa chiarezza: “Non sussistono elementi sufficienti” per ritenere che il professionista abbia consapevolmente dato una mano a ‘sbiancare’ quei fondi. Insomma, nessun dolo, quindi nessun reato di riciclaggio (tanto più aggravato). Ciò che ha portato, nel merito, all’assoluzione.
Questione chiusa? Non proprio, e non solo perché per alcuni reati minori il consulente – 42enne nel 2017 e già municipale a Chiasso – dovrà ripresentarsi a giudizio. C’è un altro personaggio della faccenda che ha bussato alle porte dell’Alta corte di Losanna. Si tratta di quel Domenico Martino, fratello (seppur in posizione subordinata) dei componenti della ‘famiglia’ affiliata alla cosca Libri-De Stefano-Tegano che ha attirato l’attenzione delle autorità antimafia. Nei suoi confronti il Ministero penale federale ha decretato un non luogo a procedere; per lui – patrocinato dall’avvocato Tuto Rossi – il nodo è rappresentato semmai dai beni di cui si è decretata la confisca al termine del procedimento. Beni su cui, lui – approdato nel Mendrisiotto e titolare di un permesso di dimora B ottenuto con documentazione di facciata – rivendica di poter dire la sua e tra i quali figura proprio lo stabile di via Motta di cui risultava essere proprietario al 50 per cento, assieme allo stesso fiduciario (per il 10 per cento) e a quel Franco Longo (per l’altro 40), riconosciuto (a sentenza) l’uomo della ’ndrangheta da questa parte del confine (tanto da essere condannato, senza appello, a 5 anni e mezzo).
In effetti, in un verdetto pronunciato sempre il 13 gennaio scorso i giudici di Mon Repos hanno dato ragione a Martino, accogliendo il suo ricorso e rimettendo l’incarto nelle mani della Corte penale del Tribunale penale federale di Bellinzona per nuovo giudizio. In buona sostanza andava convocato e ascoltato in occasione del dibattimento. Che cosa sia il diritto di essere sentito lo ricorda lo stesso Tribunale federale. Garantito dall’articolo 29 della Costituzione federale, articolo per l’appunto sulle garanzie procedurali generali, e sancito dall’articolo 107 del Codice di procedura penale, il diritto di essere sentito, scrivono i giudici di Mon Repos, “assicura alle parti la facoltà di esprimersi prima che sia presa una decisione che le tocca nella loro situazione giuridica e comprende il diritto di consultare gli atti, di offrire mezzi di prova su punti rilevanti e di partecipare alla loro assunzione o perlomeno di potersi esprimere sui risultati”.
Il ricorrente, si afferma ancora nella sentenza, “non ha partecipato al dibattimento e non ha presentato richieste scritte, malgrado avesse per legge la possibilità di farlo in quanto terzo aggravato da un sequestro nell’ottica di una possibile confisca. Non risulta tuttavia che sia stato invitato a prendere parte al dibattimento”. Contrariamente a quanto sostiene il Ministero pubblico della Confederazione (Mpc), prosegue il Tf, “non spettava certo a lui manifestarsi sua sponte per far valere i propri diritti, bensì all’autorità penale procedere agli incombenti previsti dal Codice di procedura penale, ciò su cui egli poteva e doveva confidare”. Del resto “lo stesso Tribunale penale federale riconosce che il diritto di essere sentito ‘non è stato reso operante per ciò che attiene al ricorrente’”. Insomma, annota il Tribunale federale, “nel pronunciare la confisca dei beni dell’insorgente, ignorando la sua veste di terzo aggravato da atti procedurali, il Tpf ha pertanto violato il suo diritto di essere sentito”. Ergo: “Dal momento che non è data l’impossibilità di pronunciare la confisca, come preteso (dal ricorrente, ndr), si giustifica di rinviare la causa al Tpf affinché si ripronunci sulla misura dopo aver accordato al ricorrente la facoltà di esercitare il suo diritto di essere sentito”.
Osserva l’avvocato Tuto Rossi, da noi contattato: «Domenico Martino, indipendentemente da quello che si può pensare su di lui, e comunque cittadino incensurato in Svizzera, ha il diritto di essere giudicato nel pieno rispetto dei diritti procedurali della difesa e fra questi diritti c’è quello di essere sentito e il diritto di non subire misure coercitive, come la confisca dei beni, senza la possibilità di fare ricorso».
Chiariti i termini giuridici e rimesse in discussione alcune delle conclusioni della Corte del Tribunale penale federale, non cambia lo scenario di fondo nel quale si muovono i diversi protagonisti. “In concreto – conferma il Tf –, l‘esistenza di crimini commessi da un’organizzazione criminale è appurata dalle sentenze italiane emanate nei confronti dei membri della stessa. Trattasi di ‘traffici di droga di ingentissima consistenza, necessariamente correlati a ingentissimi illeciti guadagni’, ovvero di reati che costituiscono dei crimini secondo il diritto svizzero”. A essere accertata è altresì “la riconduzione dei valori patrimoniali del conto – bancario e cifrato, ndr – ai predetti, come pure l’assenza di loro fonti legali di reddito”.