La Corte del Tribunale penale federale conferma la linea degli inquirenti. Il titolare di metà dello stabile a Chiasso era un esponente della 'ndrangheta
Sulle spalle una condanna definitiva per associazione di tipo mafioso della giustizia italiana, la metà del palazzo di via Motta a Chiasso su cui nel 2013 avevano messo gli occhi i componenti di un clan della ‘ndrangheta resterà sotto confisca. Lo ha stabilito a inizio giugno la Corte del Tribunale penale federale chiamato a pronunciarsi dall'Alta Corte di Losanna. Il titolare della metà dello stabile, patrocinato dall'avvocato Tuto Rossi, aveva infatti impugnato la sentenza reclamando la sua proprietà. Il verdetto, però, è stato chiaro: non riavrà né la sua quota dell'immobile, né i proventi dell'affitto (si parla di oltre 200mila franchi). Una decisione che mette la parola fine su un altro capitolo di una vicenda finita a più riprese in un'aula del Tribunale penale federale e che, con l'esponente della cosca, oggi al centro della sentenza, ha coinvolto la moglie, l'uomo di fiducia in Ticino della ’famiglia‘ e un ex fiduciario della cittadina, poi prosciolto dall'accusa principale di riciclaggio di denaro.
Sul tavolo la definizione della proprietà dell'edificio, la Corte, in ogni caso, non ha avuto dubbi: "È legittimo presumere - si legge nel dispositivo - che la quota parte del 50 per cento del mappale di cui era comproprietario - acquistato a suo tempo per 3,3 milioni di franchi -, fosse di fatto nella facoltà di disporre dell'organizzazione alla quale egli ha partecipato, almeno fino al dicembre del 2014, quando è stato arrestato". Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti italiani e ancorato a una sentenza della Cassazione dell'aprile del 2018 che ha confermato la condanna a 12 anni e 2 mesi di reclusione, l'uomo ha fatto parte della ’ndrangheta dalla seconda metà del 2009 al dicembre del 2014.