Gli studenti di Lavoro sociale della Supsi e Club ’74 fianco a fianco in una performance alla Pinacoteca Züst per parlare di disagio psichico
Guardando le opere alle pareti della Pinacoteca Züst è facile sentirsi a casa. I paesaggi ritratti ci arrivano da un Ticino a cavallo tra la metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, ma la loro fisionomia è famigliare e rassicurante come non mai. Eppure non sempre ci si riconosce in ciò che più conosciamo. Disagio, solitudine, diversità, malattia possono infatti portare lontano. E il rischio di perdersi è a un passo da noi. Oltre la soglia dello spazio museale cantonale a Rancate ci prendono per mano: è l‘inizio di un viaggio attraverso la mostra - ’L’incanto del paesaggio’, in allestimento fino al 25 aprile prossimo - e dentro noi stessi. Sia chiaro, non ci sarà risparmiato nulla. Le parole pronunciate vanno in profondità, a tratti risultano persino taglienti e dolorose. Gli allievi di Lavoro sociale della Supsi - accompagnati dagli studenti del Conservatorio della Svizzera italiana con pagine musicali coinvolgenti - danno voce con partecipazione alle esistenze di chi ha attraversato il disagio psichico e al contempo all’esperienza dei curanti. Ed è così che ci si ritrova immersi in una performance che grazie al linguaggio dell’arte - teatrale e musicale - va dritta al punto e mostra i nervi scoperti di questa nostra società. Ecco che il filo rosso della narrazione è quello degli esili della vita a cui tutti siamo esposti, senza distinzione. Il tema, insomma, non può non interrogarci.
Non è la prima volta, d’altra parte, che il Club ‘74 - qui affiancato da Pro mente sana e Ingrado - sperimenta, percorrendo anche le vie meno agevoli per portare alla luce la realtà del disagio psichico. E anche in questa esperienza l’Associazione con finalità socioterapeutiche, relazionali e inclusive (con sede all’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale a Mendrisio) ha colto nel segno, riuscendo quasi a travolgere di emozioni i presenti alla Züst. In alcuni momenti della vita, del resto, siamo un po’ tutti degli esiliati. Disagi e fragilità non sono solo un affare degli altri. In effetti, quella che ci avvolge è una vera “immersione sensoriale e poetica”: negli intenti delle tante persone che vi hanno lavorato con dedizione - davanti e dietro le quinte virtuali - lo scopo era proprio questo. Neanche le mascherine - presidio obbligato in questi tempi di Covid-19 - trattengono infatti i sentimenti del pubblico diviso in gruppetti. Pubblico che, di fatto, diventa parte integrante della performance. Come si può, d’altro canto, mantenere le distanze da tematiche tanto sensibili?
Nel giornale pubblicato a corredo dell’esperienza ci imbattiamo nelle riflessioni dei protagonisti che hanno condiviso questo momento e che ci ricordano quanto sia "importante non essere indifferenti verso chi sta vivendo una condizione di disagio, soprattutto di questi tempi che ci vedono esposti a particolari difficoltà nell’integrare, ma soprattutto includere, le persone più vulnerabili. Crediamo - si scandisce - che solo passando attraverso processi inclusivi possiamo dare alla società che abitiamo una dimensione più completa”.
In questo nostro viaggio insolito tra le sale della Pinacoteca vengono in aiuto anche i pensieri della filosofa spagnola Maria Zambrano, che un po’ come Virgilio guida i partecipanti attraverso vari paesaggi, lei costretta dal regime franchista di “esilio in esilio“. Le sue parole riaffiorano sulle labbra di una performer: in fondo, ci richiama, siamo "figli dei nostri sogni”. Solitudine e sradicamento così come una vita vissuta ai margini, però, per alcuni declinano disagi e patimenti. Ciascuno di noi, scrive Lorenzo Pezzoli, responsabile del modulo ’Metodi e tecniche di intervento col disagio psichico, può essere chiamato ad attraversare la condizione dell’esilio durante la sua esistenza. Una condizione dalle "fattezze a volte imprevedibili con risvolti che possono essere drammatici e talvolta sconosciuti capaci di generare situazioni di particolare sofferenza”. A tal punto, come emerso dalle interviste all’origine della rappresentazione, da percepire l’ospedale come un rifugio sicuro.
E allora per lasciare l’esilio e uscire dall’isolamento si può arrivare, come la pensatrice iberica, a considerare l’esilio stesso una “vera patria”. Ma si può tornare là dove si era partiti? In questi giorni di pandemia lo vorrebbero tutti. E comunque ci si può provare. E qui ancora Pezzoli dà alcune avvertenze: “Ma il ritorno dall’esilio, così come il ritorno da qualsiasi condizione di espulsione che la vita fa incontrare - annota -, porta con sé una nuova e più complessa conoscenza: conoscenza di sé, delle relazioni, del mondo…”. E tocca farsi trovare pronti. Essere parte di questa ‘Site specific performance’ ha dato modo di compiere qualche passo verso l’altro e l’altrove.