Mendrisiotto

Violenza domestica, la difesa: 'vita mai messa in pericolo'

Secondo giorno in aula per il 35enne che picchiò per più anni la moglie. Il legale dell'imputato contesta il tentanto omicidio: pena massima di 30 mesi

La sentenza verrà pronunciata martedì mattina
(Ti-Press)
18 dicembre 2020
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«L'assassino non bussa, ha le chiavi di casa. Solo per un caso fortunato, io oggi non rappresento un orfano». È stata un'entrata in materia diretta, quella dell'avvocato della vittima Valentina Zeli, all'inizio del secondo giorno di processo. Alla sbarra il 35enne che, per anni, ha malmenato la (ora ex) moglie tra le mura domestiche di un appartamento di Arzo. Botte e violenze culminate – secondo l'accusa sostenuta dalla procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis – con l'episodio dell 11 aprile dello scorso anno quando l'uomo tentò di uccidere la moglie. Da qui, l'accusa di tentato omicidio intenzionale, come pure lesioni gravi, ripetute lesioni semplici qualificate, reiterate vie di fatto e ripetuta minaccia (oltre a infrazione alla Legge federale sulle arme e sulle munizioni e contravvenzione alla Legge federale sugli stupefacenti). L'avvocato che patrocina la vittima (e il figlio), prima a parlare questa mattina, si è allineata a quanto richiesto dalla pubblica accusa: «la conferma del reato principale» e dunque la condanna dell'imputato a 8 anni di carcere (eventualmente sospesi a favore di una misura terapeutica, in virtù di quanto scaturito dalla perizia psichiatrica). Quello che però ha voluto sottolineare la rappresentante dell'accusatore privato è cosa la vittima abbia dovuto subire quantomeno dal 2010 all'aprile dello scorso anno. Perché oltre alle percosse (documentate con una lunga lista di lesioni, fratture ed ematomi) c'è di più: «Ha rischiato di essere uccisa, oltre a venire brutalmente picchiata» per un epiteto. «Ha subito dei traumi gravissimi e ovviamente non solo di tipo fisico». Poi l'affondo: «Ha trattato la moglie come un sacco da boxe per 13 anni» e dopo «un anno e mezzo in carcere non ha preso coscienza di niente».

Dal disturbo della personalità alla scemata imputabilità 

Se da un lato, quello dell'accusa, ci si è battuti per una pena di 8 anni (oltre all'espulsione dalla Svizzera per 10 anni); dall'altro, quello della difesa, l'avvocato Giuseppe Gianella ha chiesto una pena massima di 30 mesi parzialmente sospesi. E lo ha fatto cercando si smontare l'impianto accusatorio soprattutto per quanto riguarda il reato di tentato omicidio intenzionale. «Quanto è successo in questa relazione e quella mattina, è qualcosa di estremamente grave – ha esordito –. Non dovrebbe mai capitare che un marito più prestante di sua moglie risponda agli insulti di quest'ultima con le botte. È vero – ha aggiunto –, qui siamo di fronte a una situazione che si è protratta per anni con l'incapacità di entrambe le parti di relazionarsi e del mio assistito di non sapere controllare l'aggressività nei confronti della moglie». E qui, Gianella, spiega che il suo assistito «vuole assumersi le sue responsabilità, ma non quelle penali per azioni che non ha commesso». A partire dal capo d'imputazione più grave: tentato omicidio intenzionale, che «deve cadere». Ripercorrendo le varie fasi della lite, l'avvocato si è soffermato sui momenti in cui il marito ha messo le mani al collo della moglie. Per l'accusa, la vittima ha perso i sensi, la sua vita è stata oggettivamente in pericolo. Per la difesa no. «Non si vuole minimizzare l'accaduto», ma i pochi secondi di 'presa' hanno fatto sì che non fosse «raggiunta l'intensità necessaria» per poter configurare quel reato. In sostanza: «si rileva l'assenza di prove e indizi che indichino che il comportamento dell'imputato ha messo in pericolo la vita della vittima». Idem, a mente della difesa, per quel che concerne il lato soggettivo: il 35enne, infatti, sin dai primi interrogatori ha ribadito che le azioni erano volte «a contenerla (la moglie, ndr) visto che si dimenava ed era agitatissima».  Il legale ha poi passato in rassegna tutti gli altri episodi riportati sull'atto d'accusa, ammettendone alcuni («ne prova vergogna») e contestandone altri («in dubio pro reo»). Infine, nel commisurare una pena in base alla colpa, la difesa ha contestato la perizia psichiatrica dove all'uomo viene riscontrato un disturbo della personalità emotivamente instabile di tipo borderline. Analisi «che non è oggettiva, non è aggiornata. Si dimostra inaffidabile, superficiale e non obiettiva». L'avvocato, citando per contro una perizia di parte, ha invece parlato di «scemata imputabilità di grado lieve». Alla luce di tutto ciò, Gianella ha chiesto alla Corte delle assise criminali presieduta dalla giudice Francesca Verda Chiocchetti che la pena non superi i 30 mesi parzialmente sospesi (e nessuna espulsione). L'ultima parola – prima del verdetto che sarà pronunciato martedì prossimo – all'imputato: «Sono consapevole di aver fatto del male a mia moglie. Ma non ho mai avuto l'intenzione di mettere in pericolo la sua vita».

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