Parla un professionista della struttura di Mendrisio. Che reagisce alle denunce e racconta come si è vissuta l’emergenza sanitaria
Ormai la casa per anziani Torriani di Mendrisio sembra essere finita (suo malgrado) nella bufera... politica. C'è chi punta l'indice accusatore da Sinistra (Mps) e chi sferra l'attacco da destra (Lega-Udc-Ind.). Nel mezzo una gestione 'colpevole', almeno secondo alcuni, di mancanze e superficialità e scelte errate che valgono, come reclama il consigliere comunale della Lega Massimiliano Robbiani (e come ha dichiarato su questa pagine già il 4 giugno), l'azzeramento dei vertici dell'Ente case anziani del Mendrisiotto (Ecam). Ogni esternazione, ogni denuncia è come un pugno allo stomaco per chi - infermieri e assistenti - nelle settimane dell'emergenza sanitaria dentro le mura della struttura ci lavorava e lottava. Soprattutto per salvare delle vite. "Mi sento di dire che ci siamo riusciti". Professionista in forze, come tanti altre e altri, alla Torriani1 - di fatto la casa della rete dove si è sviluppato un focolaio di Covid-19 - non se la sente di uscire allo scoperto: nome, cognome, genere (l'identità è nota alla redazione). Non per il momento, almeno. Davanti alle accuse sferrate in questi giorni all'Istituto cittadino - finito al centro anche di atti parlamentari a livello cantonale e comunale -, però, non ce l'ha più fatta a tacere. "Siamo soddisfatti, alla fine, di quanto siamo riusciti a fare", racconta 'laRegione' accompagnandoci (virtualmente) oltre la soglia della struttura in quei giorni drammatici.
Di numeri durante la crisi acuta se ne sono fatti tanti, ma al nostro interlocutore ne bastano due. D'altro canto, i dati ufficiali, come ci conferma il presidente dell'Ecam Giorgio Comi, restituiscono 19 residenti ammalati (su 51 tamponi, 30 sugli ospiti, effettuati fra il 23 marzo e il 17 aprile) e 3 decessi. Già troppi, certo, ma poteva andare peggio (come è successo altrove), ci fa capire chiaramente. "Confusione, paura? All'inizio ci sono stati. Impreparazione? Di sicuro nei primi giorni. Ma chi era preparato a una tale pandemia? Nessuno, nel mondo intero". Dopo uno smarrimento, iniziale, però, si è reagito. "Anche perché ci abbiamo messo tutto il nostro impegno per contenere la diffusione del virus. Io non ci dormivo la notte: passavo le ore a pensare cosa fare per migliorare la situazione". Ora che si sta cercando di ricominciare a vivere, fuori e dentro le case per anziani, l'operatore avverte quindi l'urgenza di dare voce all'onestà della verità. E per dirla tutta un momento in cui gli infermieri faccia a faccia con il Covid-19 si sentivano a terra c'è stato eccome. "A quel punto abbiamo raccolto le idee, messo in fila le criticità e alcuni si sono rivolti al sindacato (l'Ocst, ndr)". Una missiva circostanziata: che ha sortito dei risultati? "Ci è stata aperta la porta della direzione e le cose sono cambiate". Il sostegno invocato, esplicita, è stato dato.
In effetti quando Ocst e vertici Ecam si sono messi al tavolo il clima non era dei più distesi, ma ciò che conta, ci lascia intendere il professionista, è che i rapporti con il personale si sono fatti più stretti e quotidiani. "Le nostre richieste sono state riconosciute: se inizialmente, come ho detto, la situazione è stata critica; non si può dire, come lamentato nello scritto dei quattro operatori (reso pubblico dal Mps, ndr), che in seguito non siamo stati ascoltati o che siamo stati abbandonati a noi stessi. Si sono pianificati gruppi di lavoro appositi. Certo, c'era molto da fare. Ed è stata davvero dura". Il nostro interlocutore non nasconde che si operava in uno stato di forte preoccupazione. "Non era semplice seguire le direttive che cambiavano di ora in ora e che all'inizio non erano del tutto chiare. Insomma, si sono state delle cose negative, ma puntare il dito col senno di poi è facile. Bisognava esserci: è stato uni shock, ad esempio - spiega -, veder ammalare dei colleghi". A contagiarsi alla Torriani1 sono stati in una dozzina fra i dipendenti. "A un certo punto le forze erano quelle che erano". Il che ha costretto a pianificare turni da dodici ore, a cui il personale si è prestato di buon grado visto la situazione.
"Sulle prime abbiamo dovuto imparare a indossare e togliere il materiale di protezione insicurezza". È vero che scarseggiava ed era inadeguato? "Una parte del materiale, come le tute con il cappuccio e i copri scarpe (che non si trovavano) sono arrivati dopo, ma siamo stati equipaggiati. C'è chi ha lamentato che si chiudevano i polsini della tuta con lo scotch. Lo facevano per sentirci ancora più sicuri. Basti dire che ci mettevamo tre paia di guanti. Un primo fissato con il nastro adesivo al camice, un secondo e sopra un terzo con cui si lavorava", ci racconta.
L'esperienza ha permesso anche di migliorare l'organizzazione nei reparti. "In un primo tempo, è vero, si è pensato su indicazione del Medico cantonale di spostare gli ospiti positivi al coronavirus nel salone a piano terra. Quando, però i casi aumentavano si è compreso che non era la soluzione più idonea, non potendo garantire dei percorsi separati e sradicando, di fatto, gli anziani dal loro ambiente (la camera, ndr) più familiare. Lì si è arrivati a creare dei piani Covid (al primo e al secondo, ndr), isolando (al terzo ndr) le persone negative. In quot modo, chiudendo i piani con gli ammalati e attivando dei protocolli mirati (ad esempio separando i carrelli dei pasti, ndr), si è fatto di tutto per evitare la diffusione del contagio".
Ecco che leggere certe accuse finisce col minare il morale, già provato dalla pandemia e i suoi effetti sulla struttura. "Sembra che non si sia fatto niente - sbotta l'operatore -. E il rischio è quello di perdere la credibilità nei confronti dei parenti che ci affidano i loro cari, di cui ci facciamo carico 24 ore su 24". Questa pandemia, a livello cantonale, ha fatto emergere le preoccupazioni dei famigliari e la difficoltà di avere notizie, soprattutto degli ammalati. "Posso dire - ci assicura - che i parenti sono sempre stati informati. Certo le cose mutavano rapidamente, ma non si è mai nascosto nulla. Se si cambiava terapia, o se c'era il minimo sospetto di un peggioramento clinico lo si diceva e si cercava di tranquillizzare costantemente la famiglia".
Adesso è il personale ad avere bisogno di essere rassicurato. In realtà, l'Ecam, d'intesa con i servizi cantonali, avrebbe voluto attivare da subito un gruppo di sostegno psicologico. "Siamo stati noi a non accettarlo durante l'emergenza. Anche se chi ne ha sentito la necessità si è rivolto alle figure messe a disposizione". Ora avete cambiato idea. "Una settimana fa la direzione ha ripresentato la proposta. Abbiamo chiesto un incontro, ne abbiamo parlato e alla fine abbiamo aderito". Ad accompagnare in questo percorso ci sarà pure la Supsi. Del resto, per chi si è trovato faccia a faccia con le sofferenze procurate dal Covid-19, superare quella esperienza dolorosa da soli non è semplice.