In occasione del processo che vede imputata la deputata Ps Lisa Bosia Mirra, ecco l'opinione dello storico Andrea Ghiringhelli.
La vicenda è nota: la signora Bosia Mirra, deputata nel Gran Consiglio ticinese, ha aiutato dei profughi ad entrare clandestinamente in Svizzera ed è stata incriminata; ha violato le leggi per eccesso di umanità, ma ha commesso comunque un reato. Ci sono coloro che gridano allo scandalo e invocano pene esemplari. Fra i detrattori, oltre a politici più o meno interessati ad alimentare le tautologie della paura che fanno dell’immigrato la fonte di tutti i mali, si distingue anche qualche alto funzionario che, con un eccesso di rigore, condanna e vede nella vicenda un attentato alle leggi dello Stato di diritto: perché le leggi dello Stato – dice lui – esigono sempre, in ogni modo, l’obbedienza e il rispetto della legalità.
In questo ragionamento scorgo qualche seria incongruenza: quella di considerare l’obbedienza alle leggi dello Stato la virtù del buon cittadino che non ammette deroghe; quella di giustificare, ad esempio, l’obbedienza alle leggi razziali e liberticide, e anche Martin Luther King da un carcere dell’Alabama scriveva nel 1963 che con questo ragionamento tutto quello che ha fatto Hitler in Germania era “legale” e “aiutare un ebreo era illegale”. È infatti con una simile logica che il comandante della polizia di S. Gallo, Paul Grüninger, fu condannato nel 1940 per aver aiutato centinaia di persone a sfuggire al delirio nazista e bisognerà aspettare il 1993 per una sua riabilitazione.
E altri cittadini, doganieri e funzionari, furono portati in tribunale per aver teso la mano a qualche disperato: agli accusati fu fatto notare dalle istanze federali che non è compito nostro “far sì che gli ebrei stiano bene”, ma il nostro unico dovere è il rispetto della legalità. Tanti decenni dopo, negli anni Settanta, il pastore valdese Guido Rivoir fu trascinato in tribunale e arrischiò la condanna per aver aiutato centinaia di cileni a entrare illegalmente in Svizzera: fu assolto dal giudice Mario Luvini che riconobbe che la solidarietà umana non può essere mortificata da leggi e leggine.
Di fatto, il ragionamento di chi ritiene non derogabili l’obbedienza e il rispetto della legalità pecca di semplicismo perché non fa distinzione alcuna fra leggi giuste e leggi ingiuste. Senza ritornare ai filosofi, da Aristotele in poi, che si sono occupati della questione, e senza entrare nel dibattito sulle varie scuole di pensiero, io credo che possiamo tutti concordare sul fatto che se esistono le leggi positive – quelle prodotte dai parlamenti e dal potere sovrano – che possono differire enormemente da Stato a Stato e addirittura contraddirsi –, esistono pure dei diritti fondamentali e inalienabili, che, come osserva Norberto Bobbio, sono il prodotto della civiltà umana, “suscettibili di trasformazione e di allargamento”.
Li ritroviamo, questi diritti, nelle carte più importanti della nostra storia, poi ripresi nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948: la Dichiarazione garantisce i diritti alla vita, alla felicità, alla libertà, promuove la solidarietà e la dignità per tutti i “membri della famiglia umana”, senza distinzione di razza, colore, opinione politica, origine nazionale. E implicitamente sancisce che nessuna legge positiva, nessun ordinamento fatto dall’uomo può cancellare tali principi.
Se ben ci pensiamo, negare l’esistenza di tali diritti, e riconoscere unicamente i codici elaborati dai parlamenti dei singoli Stati, significa piegare ogni criterio di giustizia all’opinione prevalente in un dato momento: significa in sostanza negare lo Stato di diritto. E non è un caso che tema di grande attualità del costituzionalismo sia proprio il diritto di resistenza a leggi ingiuste, tali in quanto contraddicono i diritti fondamentali.
Nel dopoguerra, ad esempio, nell’Assemblea costituente italiana, il giovane Aldo Moro difese strenuamente il concetto e pretese, inutilmente, che il diritto di resistenza fosse esplicitamente contemplato in un articolo della Costituzione italiana. Disse Aldo Moro che non si potevano considerare reati “atti commessi con apparenza delittuosa ma che hanno invece il nobile scopo di garantire la libertà umana”.
Da noi tale diritto di resistenza può essere esercitato nella legalità attraverso alcune forme di democrazia diretta, ma quando ciò non fosse possibile “uscire dalla legalità per rientrare nel diritto” diventa un imperativo e la disobbedienza a leggi ingiuste un dovere. Gustavo Zagrebelski, già presidente della Corte costituzionale italiana, ribadisce il concetto e ci ricorda che quando la legge offende la dignità umana, l’ubbidienza diventa corresponsabilità nel crimine e, al dovere di ubbidienza, deve succedere il diritto di resistenza. E pure Erich Fromm ci rammenta che l’uomo ha continuato ad evolversi mediante atti di disobbedienza: ci sono delle violazioni delle leggi, degli atti di disobbedienza che hanno contribuito all’evoluzione della società e ad affermare leggi più giuste.
Per tirare le somme: gli uomini non possono considerarsi irresponsabili dei danni e delle conseguenze negative di determinati loro comportamenti e vi è irresponsabilità grave quando, per confor- mismo diffuso o per indifferenza di comodo o per opportunismo, si invoca l’obbedienza a ordinamenti che offendono la dignità umana. Martin Luther King riassunse magistralmente, e senza ombra di equivoco, la differenza fra legge giusta e legge ingiusta: “La legge che eleva la persona umana è giusta, quella che degrada la persona umana è ingiusta”.
E, per venire al contenzioso, di fronte al flusso di tanti migranti, le violazioni dei declamati diritti umani sono state all’ordine del giorno e sembra quasi che quello che vale per noi non possa valere per loro. La distinzione fra Noi e Loro è continuamente evocata e il migrante è considerato l’Altro, il nemico che minaccia l’ordine statale e l’identità della nazione, la nostra sicurezza e il nostro benessere. Un politico alla ricerca di consensi elettorali non ha esitato recentemente, senza vergognarsi, a dichiarare che gli stranieri in Svizzera sono troppi, lasciando irresponsabilmente intendere che “la barca è piena” e bisogna provvedere al più presto.
Il fatto più vistoso e ignobile è il processo di deumanizzazione in corso: nel linguaggio della politica e degli Stati uomini e donne e bambini sono ridotti a numeri, a flussi, a statistiche: non esiste l’individuo con le sue speranze, i suoi sentimenti, ma ci sono solo dei fantasmi indistinti. Un’affermazione riassume il tutto con una definizione che mi pare l’emblema della perversione: i profughi sono definiti “materiale umano difficilmente assimilabile”. Per fortuna, al linguaggio arido della politica, ai muri e alle frontiere che respingono e negano la solidarietà, fa argine la generosità di tanti, tantissimi cittadini che i migranti li guardano negli occhi e li soccorrono non per pietà ma per un preciso dovere. Ecco, prima di respingerli bisognerebbe guardarli negli occhi, parlare con loro, ascoltarli e condividere angosce e speranze di padri, madri, bambini senza famiglia. Chiedono solo una cosa: di far parte, per ridirla con la Dichiarazione del 1948, della “famiglia umana” con dignità.
La deputata socialista ha voluto aiutare questa umanità umiliata a costo di violare ordinamenti giudicati ingiusti: perché è ingiusto ignorare la sofferenza degli altri, ingiusto privarli della loro umanità per ridurli a numeri senza sentimenti, ingiusto ritenere che quello che vale per noi non debba valere per loro, ingiusto ignorare le nostre responsabilità storiche, ingiusto obbedire alla legge quando la legge offende la giustizia.
Di fronte a questi esseri umani in cerca di dignità e di speranza, l’indifferenza e il linguaggio ripetuto dell’esclusione diventano un crimine. Norberto Bobbio osservava a ragione che oggi non si tratta tanto di fondare i diritti, ma di proteggerli e di impedire che, nonostante le dichiarazioni solenni, vengano continuamente violati. Io credo che talvolta, come la storia anche recente ha dimostrato, la disobbedienza consapevole a ogni legge che discrimini e attenti ai diritti fondamentali, rappresenti un doveroso atto di civiltà.
La signora Bosia Mirra ha violato la legge, in nome del primato della solidarietà e della dignità umana: se così è, come è, sto dalla sua parte. E fin quando sentiremo ripetere ad ogni frontiera: “Non siamo animali. Siamo esseri umani” significa che c’è ancora parecchio da fare e da correggere, nelle nostre leggi e nei nostri comportamenti. Nel 1967 un esponente americano dei diritti civili affermò che l’uomo nero rappresentava un test di intelligenza per l’uomo bianco. Parafrasandolo, potremmo dire che il migrante è un test di intelligenza per noi: e non mi pare che i risultati prodotti fino ad oggi siano esaltanti. A predominare largamente è ancora il linguaggio dell’esclusione.