A ottant’anni dalla Repubblica partigiana dell’Ossola, il prezioso racconto di Antonietta Scibetta: ospitata in Ticino come centinaia di altri bambini
Un’infanzia che definisce «spensierata». In un’Europa che tutt’attorno stava bruciando e vivendo i suoi giorni peggiori. Un racconto di luce nell’epoca più buia di tutte, quello di Antonietta Scibetta. Oggi 84enne, la signora di Domodossola è una delle poche testimoni ancora in vita dell’esodo degli abitanti della sua valle dopo che il 23 ottobre del 1944 la Repubblica partigiana dell’Ossola cadde sotto i colpi della riconquista nazifascista. I più indifesi tra le vittime, come in tutti i conflitti: i bambini. Duemila furono quelli ospitati da famiglie elvetiche, soprattutto ticinesi, grazie alla mediazione della Croce Rossa Svizzera (Crs). Tra loro anche Antonietta, che aveva solo 4 anni, e la sorella Rosa, che ne aveva 6, accolte dall’agiata famiglia Menefoglio Ronchetti di Lugano.
Avremmo dovuto incontrarci di persona, a Locarno, per parlare dell’80esimo anniversario di uno dei più begli esempi di accoglienza nel nostro Paese durante la Seconda guerra mondiale, periodo non senza controversie anche per la neutrale Svizzera. L’improvvisa nevicata di fine novembre ha scombussolato i piani e abbiamo dovuto risolvere con un’intervista telefonica, con l’aiuto della figlia e della nipote. «Potrei parlare un giorno intero o anche più» ci dice, tra un ricordo e l’altro. Un viaggio appassionato, pieno di aneddoti preziosi. Alcuni nitidi e raccontati con la precisione di una storica, altri già appannati dai lunghi anni trascorsi. Tutti trasmessi con l’affetto e la serenità tipici di una nonna, colma di gratitudine: «Nel mio cuore mi sento metà svizzera, tutti devono sapere cos’hanno fatto Lugano, il vostro Paese e la Crs per noi in quei momenti così difficili».
«Siamo una famiglia di origine siciliana – inizia il suo racconto –, ci siamo trasferiti a Domodossola perché papà aveva trovato lavoro qui. La nostra non era una famiglia benestante e quando è scoppiata la guerra le cose sono peggiorate, perché papà era bersagliere ed è stato richiamato dall’Esercito. Mamma Teresa di fatto era da sola con i figli. Dopo l’esperienza della Repubblica partigiana (durata poco più di un mese, ndr), c’era una forte paura di ritorsioni. Quindi è intervenuta la Crs in soccorso della popolazione, in particolare per mettere in salvo i bambini». Come? «Bisognava presentarsi al Collegio Rosmini di Domodossola. La mamma ha portato me e mia sorella Rosa. Inizialmente le avevano detto che io ero troppo piccola, che non avrebbero potuto trovare una famiglia per me. Poi, hanno inserito sui documenti la data di nascita del 1939 anziché quella vera (1940, ndr) e sono riuscita a entrare anche io nel grande gruppo di bambini destinati alla Svizzera».
Un escamotage che ha salvato alla piccola Antonietta l’infanzia e, forse, la vita. «Poi ci hanno portati a Locarno, con la Centovallina. Ci hanno fatto la doccia, ci hanno dato una bella merenda. Lì io e mia sorella avremmo dovuto essere separate. Io ero destinata alla signora Costanza Menefoglio Ronchetti di Lugano, lei invece a un professore della zona. Noi però non volevamo dividerci, la mamma ci aveva detto che dovevamo restare assieme e così abbiamo detto anche a Locarno. E allora la signora Menefoglio Ronchetti ha deciso di prenderci entrambe». Una sorpresa per il marito Giuseppe. «Proprio così (ride, ndr). Lui si aspettava una sola bambina, invece ne sono arrivate due. Ma ci ha accolte bene anche lui e fin da subito ci hanno messe a nostro agio, dicendoci che avremmo potuto chiamarli zii. È così è sempre stato. Ci hanno voluto un bene dell’anima dal primo momento».
La nuova casa delle sorelline di Domodossola era nel nucleo di Cassarate, dove la «zia» era titolare di un negozio d’alimentari del quale, decenni prima, era cliente fra gli altri anche il celebre scrittore italiano Antonio Fogazzaro. Ma il legame con la casa d’origine, in tempi di guerra, come è stato mantenuto? «Gli zii avevano il nostro indirizzo di casa a Domodossola e per prima cosa ci hanno fatto una foto e l’hanno mandata a nostra madre. Le hanno scritto diverse volte, ma non ricevevamo risposta, ci eravamo molto preoccupati. Poi, abbiamo saputo che le notizie non le arrivavano e che la mamma non era più a Domodossola. Fortunatamente, grazie alle conoscenze dello zio (che era presidente dell’Associazione Ospedale Italiano, ndr) e anche grazie alla Crs, la mamma è stata rintracciata sana e salva: si trovava anche lei in Svizzera. Abbiamo scoperto che si trovava nel canton San Gallo. Era malata e debilitata dagli anni di guerra e lì la stavano curando».
Come la mamma di Antonietta e Rosa, gran parte della popolazione dell’Ossola era stremata dal conflitto e ridotta alla fame. Durante la breve liberazione, sempre per il tramite della Crs ma anche grazie a numerose iniziative private e pubbliche, partirono dalla Svizzera e di nuovo in particolare dal Ticino diversi convogli di aiuto: generi alimentari di prima necessità come farina, patate, latte e carne, ma anche medicinali. E in buona salute non erano neanche le due bimbe ospitate a Cassarate. «Eravamo un po’ denutrite entrambe – ricorda Antonietta –. Io avevo anche l’orticaria, mentre mia sorella, che era una bambina molto sensibile, aveva difficoltà a dormire lontana da casa nei primi giorni. Allora, una delle prime cose che gli zii hanno fatto per noi è stato portarci dal medico, era il dottor Solari che aveva lo studio in via delle Scuole. Siamo state ben curate e in breve siamo tornate in salute». Più tardi, anche la mamma è venuta un periodo a Lugano a curarsi e lì ha potuto ricongiungersi temporaneamente con le figlie. Nel frattempo i contatti, anche telefonici, erano ripresi regolarmente. «Ho conservato tutta la corrispondenza» ci dice Antonietta, leggendo l’incipit della prima lettera dopo il rintracciamento della mamma, e commuovendosi.
I pensieri tornano allora agli anni Quaranta e a quella vita così diversa rispetto all’Italia in guerra. «Ho ricordi bellissimi. Lugano a me sembrava un paradiso. Prendevamo il tram per andare da Cassarate al centro, un’esperienza nuova e sempre bellissima. Come lo era l’ascensore dell’Innovazione (oggi Manor, ndr): una comodità che non avevamo mai visto. Poi c’erano tanti negozi, il più bello di tutti per noi era il Franz Carl Weber (storico negozio di giocattoli, chiuso nel 2002, ndr), con le sue ricche vetrine e i bei giochi esposti. E quell’anno è stato un Natale proprio da ricordare: c’erano tanti bambini del vicinato, ricordo in particolare le gemelle Steiger con le quali giocavamo spesso, la casa era piena e c’era tanta felicità. Dalla vetrata alla sera abbiamo visto passare un angelo, con in mano i doni. Poi, anni dopo, abbiamo saputo che si trattava della sorella maggiore di una delle nostre amiche. Tutti tenevano molto alla nostra serenità».
Una serenità dovuta non solo alla fuga dal conflitto e dalla carestia, ma garantita anche dal benessere della famiglia ospitante. «Sì, erano molto agiati, avevano anche titolo nobiliare, ma non amavano utilizzarlo. La zia era cugina di papa Pio XI (il pontefice che firmò i Patti Lateranensi, ndr) ed erano amici di famiglia con i conti Chini di Milano, famiglia di grande rilievo della quale faceva parte il progettista della Stazione centrale di Milano. Avevano frequentazioni importanti e soprattutto una forte bontà d’animo. Sono stati grandi benefattori anche a Lugano e proprio per questo all’Ospedale Italiano c’è una targa che li ricorda». Gli «zii» iscrissero Antonietta e Rosa rispettivamente alla scuola dell’infanzia e alle Elementari e con loro le bambine fecero anche le loro prime vacanze. Dove? «A Faido. Ricordo che alloggiavamo in una pensione vicino alla stazione. Era primavera (del 1945, ndr) e la guerra era appena finita. Vedevamo i treni che provenivano dalla Germania pieni di soldati che tornavano dal fronte. Tutti contenti per essersi salvati». Di nuovo, la grande storia si intreccia con il racconto personale. «Un’altra vacanza l’abbiamo fatta a Cademario: gli zii al Kurhaus e noi, con la donna di servizio, in un alloggio vicino. Facevamo tante passeggiate, lo zio mi prendeva in spalla se non riuscivo a camminare a lungo e ci compravano succhi e gelati: ci hanno permesso di vivere un’infanzia spensierata».
A differenza di molti bambini ossolani nella medesima situazione, Antonietta e Rosa non sono tornate a casa subito alla fine della guerra. «La mamma e il papà sì, ma noi no. La nostra famiglia era povera, a Domodossola c’era tanta precarietà. Allora gli zii hanno chiesto di poterci tenere un anno in più, fino ai miei 6 anni, affinché al rientro potessi iniziare la scuola elementare. Dato che eravamo in ottime mani, i nostri genitori hanno accettato. Siamo rimaste con loro fino al settembre del 1946, ma prima di tornare a casa la zia ha proposto di farci fare a Lugano la Prima comunione e la Cresima. Siamo dovuti andare dal vescovo Angelo Jelmini a chiedere il permesso. L’abbiamo ottenuto e abbiamo fatto il catechismo con una suora dell’Italiano. La funzione si è tenuta alla Chiesa di Santa Teresa a Viganello. Come madrina ho avuto la signora Varisco Conti di Paradiso: è stato un giorno bellissimo».
Dopo il ritorno a Domodossola, il legame con gli «zii» è rimasto molto forte. «Ci sentivamo regolarmente e due volte all’anno ci prendevano a fare le vacanze con loro. Ci hanno portate in tanti posti, con loro siamo state al mare la prima volta, con loro abbiamo visto per la prima volta la televisione. E poi ci hanno ancora aiutato molto». Quando? «Nel 1951 è venuto a mancare mio papà e di nuovo la mamma si è trovata in ristrettezze finanziarie. Allora gli zii hanno deciso di prendersi carico della mia istruzione. Sono andata dalle suore Orsoline a Porlezza, lì ho terminato una formazione commerciale. Era un collegio signorile, le mie compagne erano figlie di magistrati, di medici, di professori. Gli zii mi venivano a trovare tutte le domeniche, mentre io in estate tornavo a casa dalla mamma. Poi ho frequentato la Scuola Tamé a Lugano, con indirizzo lingue e commercio. Lì ho conosciuto un ragazzo, si chiamava Giovanni Locatelli, sembrava che avesse una simpatia per me... (ride, ndr). Tanti anni dopo, con mio marito l’ho riconosciuto per strada a Lugano, faceva il poliziotto, ci siamo salutati».
A 16 anni Antonietta torna definitivamente a Domodossola, «dovevo aiutare la mamma. È stato molto difficile lasciare Lugano e gli zii, per me erano pari ai miei genitori». Nella città natale trova lavoro per una ditta di spedizioni e lì conosce il marito Benito. «Lui aveva dieci anni in più, ma una storia simile alla mia alle spalle. Da ragazzo ha assistito alla resa di Domodossola dei partigiani ai nazifascisti. Subito dopo anche lui è stato accolto in Svizzera. Prima a Zurigo, poi in Ticino: a Bellinzona, dalla famiglia Pacciorini, che gestiva un negozio di alimentari. È stato trattato molto bene anche lui e siccome aveva già 14 anni ha potuto dare una mano anche in bottega, ma ha anche frequentato un anno di scuola». Il legame con la Svizzera è diventato poi famigliare, quando una delle figlie si è sposata e trasferita nel Luganese, mentre l’altra è maestra e vive a Domodossola.
Antonietta ha quindi continuato per tutta la vita a frequentare Lugano e il Ticino. Soprattutto privatamente, ma, negli anni, sempre più spesso e in particolare con il marito, per raccontare la propria storia. Lo ha fatto circa trent’anni fa a ‘Millevoci’, in radio, quando durante la diretta l’ha chiamata la cognata della signora di servizio dei Menefoglio Ronchetti. E ancora pochi anni fa, alla scuola media di Locarno della Morettina. «Mio marito e io siamo stati invitati dalla direttrice, la signora Carla Stockar, a una serata. C’erano anche l’ex consigliere di Stato Manuele Bertoli e l’allora esperto di storia per le Medie Pasquale Genasci. Abbiamo raccontato il nostro vissuto, siamo stati ospiti due volte e i ragazzi ci hanno lasciato dei ricordi e anche un libro in segno di ringraziamento». Uno scambio che non si è limitato a quell’esperienza: al Museo Centovalli e Pedemonte di Intragna sono esposti i vestiti della Prima comunione delle piccole Antonietta e Rosa, quale dono per la «gratitudine verso la Svizzera». E segno di una storia di devastazione e di spensieratezza. Traccia e monito indelebile della forza e della necessità di un altruismo che non conosce confini.