Presenti oltre un centinaio di persone durante al momento di raccoglimento per il giovane afgano deceduto martedì. Alcuni suoi amici lo ricordano
È un misto di tristezza e rabbia l’umore generale durante il momento di ricordo organizzato al Centro Cittadella a Lugano per il ragazzo afgano deceduto martedì. Tristezza per un giovane caduto in depressione e che, secondo alcuni conoscenti, non ha trovato altra soluzione se non il suicidio; e rabbia per come è stata gestita la situazione di un ragazzo con un passato difficile, venuto in Svizzera pochi mesi prima dell’inizio delle restrizioni dovute alla pandemia e concluso dopo un ricovero alla clinica psichiatrica (Cpc) di Mendrisio.
Come ci spiega Eftekhar Ali amico del giovane: «L’ho conosciuto nel 2020 quando eravamo insieme al centro di accoglienza a Paradiso, poi lui lo hanno spostato a Castione e per un po’ di tempo non l’ho sentito. Durante questo periodo ha lavorato anche come elettricista, ma aveva difficoltà ad integrarsi. Noi tutti abbiamo storie diverse e alcuni per il loro carattere o il loro vissuto interagiscono in modo differente con una nuova realtà dove le abitudini e la lingua sono completamente diverse da quelle che conoscono. Qui nei centri veniamo spesso spostati da un centro all’altro e questo non aiuta all’integrazione in tempi brevi».
L’ultima volta che il ventunenne Eftekhar Ali l’ha incontrato, fu una settimana prima del suo decesso: «L’ho visto sul lungolago di Lugano. Era appena stato al Cpc di Mendrisio dove lo hanno riempito di medicamenti e una volta fuori nessuno lo seguiva. Ti aiutano solo se cerchi aiuto, ma in quelle condizioni di depressione è difficile chiederlo».
Come ci raccontano altri ragazzi che vogliono mantenere l’anonimato per non rischiare di perdere la possibilità di ricevere il permesso B, la situazione non è un caso unico. «Nell’ultimo anno è già il terzo suicidio di un giovane nella nostra comunità e ci sono tante altre persone in difficoltà. Nessuno ci aiuta, non ci sono attività per noi, l’integrazione risulta spesso impossibile perché con il permesso F è difficile svolgere una vita normale. Se avessimo un permesso B anche a livello sanitario sarebbe diverso e avere un sostegno psicologico sarebbe più facile. Nella nostra situazione invece per gli assistenti dei centri è più facile imbottirci di medicamenti e lasciarci lì a far nulla sdraiati tutto il giorno. Questo poi porta alla depressione e alcuni di noi pensano seriamente al suicidio perché qui si sentono come in carcere».