Luganese

‘Il suo suicidio rischia di non essere l’ultimo’

Presenti oltre un centinaio di persone durante al momento di raccoglimento per il giovane afgano deceduto martedì. Alcuni suoi amici lo ricordano

La cerimonia in memoria del giovane
(Ti-Press)
15 luglio 2023
|

È un misto di tristezza e rabbia l’umore generale durante il momento di ricordo organizzato al Centro Cittadella a Lugano per il ragazzo afgano deceduto martedì. Tristezza per un giovane caduto in depressione e che, secondo alcuni conoscenti, non ha trovato altra soluzione se non il suicidio; e rabbia per come è stata gestita la situazione di un ragazzo con un passato difficile, venuto in Svizzera pochi mesi prima dell’inizio delle restrizioni dovute alla pandemia e concluso dopo un ricovero alla clinica psichiatrica (Cpc) di Mendrisio.

Integrarsi non è semplice per tutti

Come ci spiega Eftekhar Ali amico del giovane: «L’ho conosciuto nel 2020 quando eravamo insieme al centro di accoglienza a Paradiso, poi lui lo hanno spostato a Castione e per un po’ di tempo non l’ho sentito. Durante questo periodo ha lavorato anche come elettricista, ma aveva difficoltà ad integrarsi. Noi tutti abbiamo storie diverse e alcuni per il loro carattere o il loro vissuto interagiscono in modo differente con una nuova realtà dove le abitudini e la lingua sono completamente diverse da quelle che conoscono. Qui nei centri veniamo spesso spostati da un centro all’altro e questo non aiuta all’integrazione in tempi brevi».

La depressione dietro l’angolo

L’ultima volta che il ventunenne Eftekhar Ali l’ha incontrato, fu una settimana prima del suo decesso: «L’ho visto sul lungolago di Lugano. Era appena stato al Cpc di Mendrisio dove lo hanno riempito di medicamenti e una volta fuori nessuno lo seguiva. Ti aiutano solo se cerchi aiuto, ma in quelle condizioni di depressione è difficile chiederlo».

Come ci raccontano altri ragazzi che vogliono mantenere l’anonimato per non rischiare di perdere la possibilità di ricevere il permesso B, la situazione non è un caso unico. «Nell’ultimo anno è già il terzo suicidio di un giovane nella nostra comunità e ci sono tante altre persone in difficoltà. Nessuno ci aiuta, non ci sono attività per noi, l’integrazione risulta spesso impossibile perché con il permesso F è difficile svolgere una vita normale. Se avessimo un permesso B anche a livello sanitario sarebbe diverso e avere un sostegno psicologico sarebbe più facile. Nella nostra situazione invece per gli assistenti dei centri è più facile imbottirci di medicamenti e lasciarci lì a far nulla sdraiati tutto il giorno. Questo poi porta alla depressione e alcuni di noi pensano seriamente al suicidio perché qui si sentono come in carcere».