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L’infinita pedalata dei ‘30 saggi arrotini’

Attivo dal 1967, fu uno dei primi gruppi di cicloturismo, sorta di emanazione del Velo club Lugano

Prima del Mont Ventoux
10 gennaio 2022
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Correva il 1967, si girava l’Europa con la 2 cavalli, l’autostop, l’Interrail. La moto. Praticamente nessuno affrontava lunghi viaggi sulla sella di una bicicletta. Nessuno tranne... “30 saggi arrotini” gruppo fra i pionieri del cicloturismo, di stampo sportivo visto che molti di loro erano corridori o ex corridori del Velo club Lugano. Già, perché le bici elettriche erano ancora frutto dell’immaginazione e i ‘tapponi’ non facevano sconti. Passati quasi 55 anni, i 30 saggi arrotini sono ancora ‘on the road’, sulle strade del mondo.

«Ma non siamo più in 30, all’inizio avevamo deciso di tenere il numero chiuso, ma ora, siamo oltre cento», ci dice Elio Calcagni, presidente di questo gruppo e lui stesso ex corridore ciclista, insieme al figlio Patrick, ben conosciuto dagli appassionati delle due ruote per la sua carriera, una decina d’anni nei professionisti e ora lui pure animatore di questi viaggi-vacanza. Ma torniamo al nome del gruppo. Chiarito il perché dei 30, che non sono più 30, «saggi perché... non facevamo sempre cose sagge, e arrotini perché gli arrotini pedalano, o almeno allora pedalavano».

Ghette da donna e maglioni pesanti

Elio Calcagni ricorda i ‘vecchi tempi’, non i primissimi giri «perché avevo 17 anni, e mi dicevano sei troppo piccolo...». Uno scrupolo a quanto pare legato più alle baldorie serali che alle difficoltà del percorso. «Io ho smesso di correre nel ’74, e penso che il nostro sia stato il primo gruppo del genere in Svizzera se non in Europa. Quando eravamo in cima ai Passi tutti ci guardavano come mosche bianche, nessuno pensava che si potesse arrivare in bicicletta sullo Stelvio o sul Gavia». Senza l’assistenza e l’equipaggiamento di un ‘Giro d’Italia’, si capisce. «Anche l’abbigliamento dovevamo inventarcelo. Io andavo in giro con le ghette nere da donna, e pantaloncini di una maglia di lana pesante, che quando pioveva poteva pesare dei chili... non esistevano in commercio tenute da ciclismo».

Avventure e disavventure

Tra i fondatori di questo sodalizio troviamo Attilio Moresi (unico ticinese ad aver vinto il Tour de Suisse) e Claudio Bertarelli, pilastro per lunghi anni del Vc Lugano. L’elenco delle mete raggiunte è pressoché sterminato. Alpi francesi, Pirenei, Alpi austriache e italiane, Jugoslavia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Spagna, Portogallo. Cipro. La Colombia, due volte, fino a 4mila metri di quota, la Turchia. Non tutti i viaggi erano semplici da organizzare. «Per esempio in Cecoslovacchia ci voleva il visto, ed eravamo obbligati a essere seguiti da una guida che ci accompagnava in tutte le tappe. A proposito, una volta si facevano tappe di 130-140 chilometri, ma eravamo più o meno tutta gente che correva, con biciclette da gara. Incidenti? Sì, ne sono successi ma niente di grave, qualcuno è finito contro una macchina, come una volta scendendo dal Crocedomini, qualcuno nel fosso, ma non cose da finire in ospedale». Tutto bello, ma perché passare le vacanze faticando su un duro sellino? «Prima di tutto la compagnia, e poi si apprezza il paesaggio. Per esempio, non si può mettere l’andare in auto a Firenze, e farlo in bici. Si ha molto più contatto con la gente del posto, ci si ferma nei paesini, c’è quello che buca, c’è quello che si perde...». A proposito di smarrimenti, ancora si ride della pedalata con destinazione Galliate in provincia di Novara: metà del gruppo finì nell’omonima località di Galliate in provincia di Varese... «e a quei tempi non c’era il telefonino. Alle 8 di sera partiva il traghetto da Genova, eppure riuscimmo tutti a prenderlo. Abbiamo anche subito qualche furto di biciclette, e per ben due volte siamo stati fermati in autostrada... Una volta, in Ungheria, la polizia è stata gentilissima e ci ha scortati fino all’uscita. In Spagna a Oviedo abbiamo imboccato l’autostrada perché è segnata in blu, e pensavamo fosse una strada normale. La polizia ci ha fatti uscire scavalcando la rete. In Francia dall’auto di Gianni Macconi ci rubarono tutto quello che avevamo dentro, compresi i filmini che lui girava sempre con la cinepresa». Insomma, una vita randagia che continua ad affascinare ciclisti spesso non proprio giovanissimi. Patrick Calcagni da parte sua ha ancora l’aria di un corridore eppure, ci dice, «non ho più voglia di andare in bici per la prestazione ma per il piacere di andarci. Devo dire che anche quando correvo mi piaceva partecipare a qualche giro nella stagione morta, da novembre in poi».

Metti un campione a cena

Una simpatica tradizione del sodalizio, da una decina d’anni a questa parte, è la cena durante la quale viene consegnato un premio alla carriera a un corridore professionista che abbandona l’attività. Quest’anno è toccato a Fabio Aru, in precedenza erano stati ospiti degli ‘arrotini’ personaggi come Bettini, Garzelli, Rominger, Bertogliati.

Tra le uscite più recenti, una merita la segnalazione per l’originalità: «Siamo andati a Milano per il weekend d’autunno: tutto su pista ciclabile da Sesto Calende, prima lungo il Ticino e poi il Naviglio grande, fino a Porta ticinese, dove avevamo l’albergo». Alcuni non più in bicicletta, ci sono gli ‘scansanti’ che seguono il gruppo sul pullman o sulle auto.

Tutti quanti hanno però una gran voglia di ripartire e sperano nella fine della pandemia. «Io ho un po’ il pallino dei Paesi baschi, ma dubito che ce la faremo nel 2022 tra vaccini, tamponi e non tamponi» conclude Patrick.