Manifestazione a sostegno del Paese conquistato dai talebani oggi a Lugano. Jamileh Amini: ‘Sono più pericolosi di quelli di vent'anni fa’.
Un abbraccio lungo 6'500 chilometri, tanti quanti separano Lugano da Kabul, la capitale afgana caduta nelle mani dei talebani a metà agosto. Un abbraccio che è «un messaggio di sostegno», ci spiega Sarah Rusconi di Amnesty International Svizzera. L'organizzazione non governativa (Ong) ha indetto infatti una manifestazione di supporto al martoriato Paese asiatico oggi dalle 15 alle 17 al Parco Tassino di Lugano, con punto d'incontro al piazzale di Besso alle 14.30. «Da un lato vogliamo dar modo alla comunità afgana in Ticino (oltre 300 persone, ndr) di vedersi e farsi vedere e dall'altro serve a noi ticinesi per dare una risposta all'onda emotiva che si è scatenata nelle ultime settimane».
All'indomani della caduta di Kabul Amnesty ha effettivamente ricevuto numerose chiamate. «Da afgani residenti qui. Ma anche da ticinesi. E tutti volevano capire se c'era modo di aiutare». A giudizio di Rusconi «la Svizzera può fare di più: Siamo un Paese che ha la possibilità di aiutare più delle 230 persone che il Consiglio federale ha deciso di accogliere». E mentre l'Ong a livello internazionale ha attivato il proprio fondo per l'aiuto d'emergenza, su scala nazionale a fine agosto ha co-promosso una petizione che ha raccolto nel frattempo circa 7'000 firme. «La petizione chiede al Consiglio federale di rivedere le decisioni di rinvio degli afgani. Ci sono persone che l'hanno ricevuta tre o quattro anni fa e hanno dovuto lasciare il posto di lavoro e l'appartamento, un pezzo della propria vita. Persone che da allora vivono in sospeso perché il rimpatrio non è stato eseguito dato che la situazione nel Paese è peggiorata. Persone che hanno una dignità che va difesa».
E per capire un po' meglio come gli afgani in Svizzera stanno vivendo questo periodo abbiamo parlato con Jamileh Amini, che da dieci anni vive in Ticino. «Ricordo benissimo le scene delle persone picchiate per strada perché in quel periodo vivevo in Afganistan con la mia famiglia. La vita era difficile. Io, come qualsiasi ragazzina, volevo solo uscire per andare a giocare con le amiche. Ma questo non era possibile. Al massimo si poteva stare a casa, in cortile. Come femmina non avevo diritti, ero completamente coperta e vivevo nella paura. La mamma era sarta e ogni volta che andavamo a comprare i tessuti veniva con noi il papà o un altro uomo della famiglia e solo lui poteva entrare nel negozio. Lei doveva restare fuori e indicare attraverso la vetrina quali erano da comprare. Quando i talebani sono stati sconfitti e hanno perso il potere ho capito che esiste una vera vita».
Grazie al proprio mestiere di interprete e mediatrice interculturale, Amini si confronta quasi quotidianamente coi connazionali che vivono in Ticino. «Molti di loro hanno famiglia nel Paese d'origine. C'è angoscia, paura, disperazione. Sono giorni traumatici. Per chi ha vissuto sotto il primo regime dei talebani, è come rivivere tutto. È una cicatrice che fa male». Da quanto i talebani hanno preso il potere i contatti telefonici sono diventati estremamente difficili, praticamente impossibili quelli via internet o posta classica. «Le persone hanno anche paura utilizzare le e-mail e i talebani hanno monopolizzato i social media con la loro propaganda e cercano di far passare il messaggio che sia tutto normale, non mostrano naturalmente le persone che vengono picchiate o uccise. Ma noi sappiamo che sono cose succedono, conosco casi di giornalisti della mia provincia, Herat, che sono stati picchiati a morte. Poi quelle prese di mira solo perché sono scese in piazza per rivendicare i propri diritti».
Molti afgani chiedono alla Svizzera di fare qualcosa, di aumentare i visti umanitari. «Le persone non sentono i propri cari da settimane, non sanno che ne è di loro. È difficile soprattutto per le donne che sono rimaste giù, i cui mariti sono o fuggiti o stati uccisi e loro sono costrette a nascondersi, perché da sole di casa non possono uscire. Bisognerebbe cercare di fare di più per accogliere le persone più vulnerabili». Questo, anche perché l'immagine di presunta moderazione che i talebani hanno cercato di veicolare non corrisponderebbe al vero. «Non è assolutamente vero. Sì, sono cambiati, nel senso che sono diventati più pericolosi. Sono più potenti, hanno a disposizione più armi, e sono sostenuti dall'esterno, da altri Paesi. Ma per il resto sono gli stessi estremisti fanatici che vogliono togliere al popolo tutte le conquiste sofferte ottenute negli ultimi vent'anni. La situazione è drammatica per le donne, ma difficile anche per gli uomini: non possono indossare i jeans, devono lasciar crescere capelli e barba».
La manifestazione odierna è rivolta quindi principalmente ai propri compaesani rimasti in Afganistan. «Vogliamo dare la forza al nostro popolo, dirgli di farsi sentire, di lottare. Siamo convinti che solo una minoranza sostenga i talebani». E sebbene si tratti di un Paese multietnico le cui componenti non sempre convivono in modo sereno, la condanna dei talebani sarebbe quasi unanime: «Sì, siamo tutti addolorati e concordi. Credo che in fin dei conti sia soltanto un gruppo di studenti fanatici, ma che purtroppo ha potere e sostegno. Se quest'ultimo venisse a cadere, non sarebbe difficile scalzarli. Su scala internazionale oggi mi sembrano già meno appoggiati rispetto a un mese fa. È difficile fare previsioni perché le cose cambiano molto velocemente, ma altrettanto in fretta la situazione sta peggiorando e credo che sia sotto gli occhi di tutti. Per questo, se vuole prevenire delle atrocità, l'Occidente deve fare qualcosa. Ma non domani, ora».