Ticino

‘È come 20 anni fa, quando uscivo vestita da bambino’

Voci dal Ticino sull’Afghanistan dimenticato. Jamileh, che da piccola ha vissuto sotto i talebani. E Ramazan, che nel Paese ha la mamma e la sorella

Jamileh
22 febbraio 2022
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C’è una frase a cui Ramazan Rahimi non è ancora riuscito ad abituarsi nonostante sua mamma gliela ripeta da ormai 7 anni: "Mi basterebbe rivederti almeno una volta nella vita, nient’altro". A ogni chiamata – in questo momento una o due volte al mese, «perché internet costa e non sempre funziona» –, sentendo pronunciare quelle parole, il 24enne di origini afghane che vive in Ticino dal 2017 viene pervaso da una profonda tristezza. Mamma e sorella sono bloccate nel Paese che da sei mesi a questa parte è tornato sotto il giogo dei talebani a seguito del ritiro delle truppe statunitensi che vi hanno trascorso due decenni. «Non sempre la mia famiglia mi racconta tutto quello che succede per evitare di farmi preoccupare – racconta Ramazan –. Ma i talebani sono come quelli di vent’anni fa, non c’è stato alcun cambiamento nella struttura politica del regime. C’è molta violenza e vengono torturate e uccise persone innocenti. Cambia solo che adesso viene fatto tutto più di nascosto per dare un’immagine migliore all’esterno».

Condannate dal non poter viaggiare senza un familiare uomo

Nell’ultimo mezzo anno la disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi, molte famiglie sono state costrette a vendere i propri averi, e alcune persino i propri figli. Non ci sono soldi, non ci sono generi di prima necessità, mancano cure e c’è grande paura. E intanto i fondi per gli aiuti sono bloccati da un embargo internazionale. «Le persone, appena possono, scappano. Ma non è facile, soprattutto per la mia famiglia». Il regime talebano ha infatti stabilito che le donne possono viaggiare solo se accompagnate da un uomo con legami di parentela, ciò che per la mamma e la sorella di Ramazan suona come una condanna: «Vorrebbero scappare in Iran o in Pakistan, ma non possono spostarsi perché sono sole e in più non hanno i passaporti». La preoccupazione maggiore è quella dell’abbandono totale. «Si parla di una nuova guerra, e abbiamo davvero tanta paura che loro rimangano imprigionate lì mentre tutti intorno se ne vanno. C’è molta incertezza per il loro futuro. E anche il mio non è così chiaro».

‘Sia loro che io viviamo in una gabbia, cambia solo che la mia è bella’

Ramazan vive a Locarno, frequenta il terzo anno di Csia e sta svolgendo un apprendistato come decoratore di interni. L’azienda presso cui è occupato gli ha già detto che al termine degli studi lo assumerà. «Il lavoro ce l’ho. Però il mio permesso F – per persone ammesse provvisoriamente – non mi permette di uscire dalla Svizzera e in più, se la situazione in Afghanistan dovesse cambiare, c’è il rischio che mi rimandino là». Ramazan, che nel suo Paese frequentava il liceo e lavorava come sarto, a un certo punto si è trovato in una situazione di pericolo talmente grave per cui ancora minorenne non ha avuto altra scelta che scappare. «Sono fuggito con la mia famiglia fino in Iran, loro però sono dovute tornare indietro perché erano senza documenti, io invece ho proseguito il viaggio». Da solo. Per un anno. «Il momento peggiore è stato in Grecia, dove sono rimasto bloccato per otto mesi a vivere sotto una tenda senza fare niente. Ma anche i sei mesi appena trascorsi sono stati terribili». Ciò che al giovane pesa come un macigno è il fatto di non poter essere in alcun modo di sostegno alla sua famiglia: «Mi sento inutile. Loro sono là da sole e io qui. Spesso mi vergogno perché mi sento egoista. Siamo tutti in una gabbia, sia loro che io, solo che la mia è bella. Potessi tornare indietro, sapendo che la situazione sarebbe diventata così, anche senza avere altra scelta che quella di scappare, non lascerei mai la mia famiglia». Dal tono di Ramazan trapelano sentimenti difficili da sopportare: «Ho tentato a lungo senza risultati di dimenticare tutto il dolore che ho provato. Ma il tempo non ha fatto che aggiungerne altro. Ultimamente ho dovuto saltare la scuola e qualche giorno di lavoro perché non riesco a dormire bene, faccio incubi, provo una forte ansia». A dargli un po’ di sollievo ci sono gli amici – «mi stanno vicini, mi aiutano a tranquillizzarmi» – e le sue grandi passioni per il teatro e la letteratura: «Mi piace molto recitare, scrivo piccole storie e ho in progetto di realizzare un libro di poesie».

Cancellate tutte le conquiste femminili nel mondo sociale e del lavoro

Quello dei talebani è un regime che Jamileh Amini, interprete e mediatrice interculturale che vive a Lugano da 11 anni, conosce bene. La prima parte della sua infanzia in Afghanistan l’ha trascorsa sotto il loro dominio. «Capisco bene l’angoscia che sta provando la popolazione, l’ho vissuta sulla mia pelle. Soprattutto gli atteggiamenti ostili e i soprusi sulle donne». Da piccola per uscire di casa e andare a giocare anche solo in cortile, Jamileh doveva travestirsi da maschietto: «Le bambine erano obbligate a restare in casa, proprio come ora. Il Paese è tornato nel buio più totale – constata con amarezza –. Gli afghani e soprattutto le donne hanno all’improvviso perso 20 anni di conquiste e passi avanti nel mondo sociale e del lavoro. Le scuole sono chiuse, e anche se la promessa è che riapriranno il 21 marzo, difficilmente saranno accessibili alle ragazze. Intanto molte donne sono rimaste vedove e per mantenere il resto della famiglia sono state costrette a vendere le loro figlie. Sono anche ricominciati i matrimoni forzati, a 16 anni le ragazze devono sposarsi e fare bambini. E di recente alcune attiviste per i diritti delle donne sono scomparse nel nulla». Uno scenario oltremodo inquietante, su cui manca completamente l’informazione. «Non abbiamo più notizie affidabili. All’inizio qualche giornalista era rimasto, ma poi sono stati messi tutti a tacere. C’è stato un ritorno alle frustate, le lapidazioni e gli omicidi, soprattutto per le giornaliste donne».

Un popolo tradito e abbandonato. Ma le nuove generazioni non lo accettano

E poi ci sono il freddo, la fame e le malattie: «È un inverno devastante, il Paese è in ginocchio. Mancano carbone e rifornimenti di cibo e medicinali, soprattutto nelle province. Chi ha continuato a lavorare non ha più ricevuto lo stipendio. E i soldi degli aiuti internazionali non arrivano a causa della paura che finiscano nelle mani dei talebani invece che per sostenere le persone bisognose». Tutto questo, dice Jamileh, è successo perché «il Paese è stato tradito e abbandonato. Inoltre dopo la prima ondata di solidarietà ora nessuno ne parla più. È come se fosse un Paese perduto». E lo sarà davvero se non gli si dà al più presto una mano. «Serve un vero aiuto sia economico che per ristabilire i diritti. I bambini non stanno più andando a scuola e molti anche tra i più piccoli hanno iniziato a lavorare. Se la nuova generazione cresce in questo modo, l’Afghanistan non avrà futuro».

Uno scenario che Jamileh sta cercando di scongiurare in ogni modo. Lo fa ad esempio collaborando a un progetto di lezioni online: «L’idea è nata da una donna afghana in Inghilterra. Tramite Telegram vengono proposti alle ragazze in Afghanistan corsi di varie lingue, ma anche di cucina, di sartoria. Io insegno italiano». Le giovani iscritte sono circa 800, e ultimamente si è unito anche qualche ragazzo. «Hanno una grande voglia di partecipare e di studiare. E anche di resistere a una situazione che non accettano». Jamileh ha anche fondato l’‘Associazione comunità afghana Ticino’ (Acat): «Fin da subito ci siamo adoperati per sostenere la popolazione afghana nel cantone attraverso dei momenti informali di condivisione e sensibilizzazione per rispondere alla forte preoccupazione per la situazione dei familiari e degli amici rimasti in patria. Al contempo cerchiamo di aiutare concretamente la popolazione in Afghanistan. Abbiamo alcuni volontari sul posto a cui mandiamo soldi e che comprano e distribuiscono carbone, riso e olio. Vedere nelle foto che ogni tanto ci mandano la gioia negli occhi di queste persone mi dà un’emozione enorme». Acat collabora inoltre con l’associazione Education for Integration di Lucerna. La priorità di Jamileh è ora quella di raccogliere fondi, ma con la sua associazione vuole in futuro costruire anche un ponte culturale tra le due realtà a cui è legata, promuovendo attività di integrazione. «Quando la situazione sarà meno grave, mi piacerebbe far conoscere la cultura afghana in Ticino. Quella di un Paese che non è solo miseria e guerra, ma pieno anche di molte belle cose». La speranza è che tornino presto alla luce.

INVITO

Incontro-conferenza
al Canvetto Luganese

Domani, mercoledì 23 febbraio alle 18.15, al Canvetto a Lugano si terrà una serata organizzata dal Coordinamento donne della sinistra dal titolo ‘Afghanistan 6 mesi dopo’ con Jamileh Amini, Sohail Khan del progetto ‘Remember Us’ e il giornalista ed esperto Roberto Antonini, per uno sguardo sull’attualità e la presentazione di progetti a sostegno della popolazione afghana. Nel corso della serata verrà organizzata una raccolta fondi. Seguirà un rinfresco con specialità afghane.