Giudicato colpevole il 45enne rumeno coinvolto in quello che è stato considerato un vero e proprio regolamento di conti fra bande rivali
Sei anni. È questa la pena comminata dal giudice Mauro Ermani, presidente della Corte delle assise criminali di Lugano, all'uomo, un 45enne rumeno, che nel 2012 tentò di uccidere, assieme ad altre due persone, un trentenne, albanese del Kosovo. La pena chiesta dal sostituto procuratore generale Nicola Respini era stata di sei anni e nove mesi, mentre l'avvocato della difesa, Sandra Xavier, aveva chiesto il totale proscioglimento dalle accuse, dichiarando che il suo assistito era estraneo all'accaduto. Un fatto a cui la Corte non ha creduto. «L'imputato prese parte, in totale consapevolezza, al piano che prevedeva di dare una lezione alla vittima dopo la sanguinosa aggressione subita pochi giorni prima a Mendrisio. Imputato che poi scappò in Irlanda, dove risiedeva, per la paura delle conseguenze delle proprie azioni. Una latitanza che però contribuisce e aggrava la decisione della pena detentiva odierna», ha spiegato Ermani nelle motivazioni. La diminuzione dei nove mesi di pena detentiva, inizialmente chiesti dall'accusa, sono da attribuire al fatto che «l'accusato nei suoi anni di latitanza non ha più frequentato persone o compagnie che nel 2012 lo portarono a contribuire al tentato assassinio».
L'accoltellamento di Bissone fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. In quella notte di marzo del 2012 un albanese del Kosovo rischiò la vita. Speronato in auto, fu accoltellato con una quindicina di fendenti definiti dall'accusa «perversi e con una particolare mancanza di scrupoli». Un regolamento di conti? Quello che è certo è che ancora adesso le motivazioni dietro il selvaggio pestaggio che l'imputato rumeno subì prima di avviare la ritorsione sono ignote. Lui ha spiegato che non nutriva odio verso il kosovaro. Anzi, la sera del tentato assassinio non andò con l'intento di aggredirlo: «Quella sera andai per stringerli la mano, con l'intento di sancire una pace tra di noi». Così ha spiegato l'accusato al giudice, anche se quest'ultimo ha risposto che «i riscontri oggettivi sono ben altri: se vai per stringere una pace, non c'è nessun motivo di speronare un'auto, farla accostare e poi spaccare il finestrino con una mazza da golf». Su quella mazza da golf peraltro le autorità trovarono anche il Dna dell'imputato, che però si è difeso spiegando che la usò per difendere la vittima, e non per attaccarla. Il sostituto procuratore generale Nicola Respini crede che invece la sua latitanza derivi proprio dal fatto di sapere di aver lasciato quelle tracce. Un altro mistero è legato al brutale accoltellamento: l'accusato ne prese parte o fu solo uno spettatore? Come ha spiegato il giudice Ermani, «le versioni di chi e come sferrò le coltellate potenzialmente mortali date da quattro persone diverse non sono sufficienti a fornire elementi decisivi per confermare chi sia stato». In sostanza, quindi, la Corte ha sostenuto la tesi della vendetta personale e della guerra tra bande rivali che si contendevano la vigilanza nei locali notturni. L'imputato alla fine non è dunque riuscito, insieme alla difesa, a proporre delle tesi che potessero proscioglierlo da tutte le accuse.
Gli inquirenti, dopo questi fatti, avviarono una serie di operazioni, fra cui quelle denominate Domino e Movida, che su iniziativa di Procura e Polizia cantonale diedero, come scriveva 'laRegione' nel 2017, "una sportellata alla pratica illegale della prostituzione in diversi locali ticinesi". Dopo quel grave fatto, figlio di una guerra fra clan rivali, da una parte i rumeni, dall'altra gli albanesi del Kosovo, molti i postriboli setacciati e chiusi in tutto il cantone e oltre un centinaio i procedimenti penali. Nella rete gruppi malavitosi che puntavano anche alla gestione della sicurezza nei maggiori locali notturni e discoteche della Svizzera italiana, così poi da riuscire a organizzare con più facilità l'entrata in scena notturna delle 'ragazze'.