Domani la sentenza del processo contro un 45enne rumeno accusato di tentato assassinio nell'ambito di un regolamento di conti nel mondo a luci rosse
Solo testimone del grave accoltellamento o mano che mosse quella quindicina di fendenti? La sentenza domani mattina. La Corte delle Assise criminali di Lugano è chiamata a giudicare un 45enne rumeno, accusato di tentato assassinio. L'uomo partecipò, secondo il sostituto procuratore generale Nicola Respini, la notte del 9 marzo 2012, a Bissone, a un agguato in piena regola contro un albanese del Kosovo, allora trentenne. Sullo sfondo il controllo del mondo a luci rosse.
Sono i particolari che emergono nell'atto d'accusa. L'imputato era stata arrestato nell'aprile 2019 in Irlanda, Paese dove risiede, ed estradato in Ticino nel maggio 2020. Nove anni fa sferrò, in correità con altri due uomini (di cui uno condannato a dieci anni nel 2013 per lo stesso reato), una quindicina di coltellate contro colui "reo" di aver importunato alcune prostitute. Particolarmente "odiosi", come ha sottolineato il magistrato nel chiedere una pena di 6 anni e 9 mesi, il movente e lo scopo. La vittima, infatti, subì fra le 13 e le 14 profonde ferite da taglio, al torace, al dorso, alle gambe, alle mani nonché contusioni potenzialmente letali. Solo il timore dell'arrivo della Polizia, allertata da alcune persone, fece desistere il terzetto.
«Erano persone che avevano preso il nostro territorio per farvi i loro loschi affari – ha esordito Respini nella sua requisitoria avanzando l'ipotesi che vi fosse in atto una guerra fra rumeni e albanesi del Kosovo –. In via Campione si consumò una vendetta. Fu l'aggressione ai danni dell'imputato, avvenuta cinque giorni prima a Mendrisio, a scatenare la reazione. Erano arrabbiati, bisognava far vedere chi era il più forte dei due gruppi, chi aveva più autorità. E come? Ripagando con la stessa moneta». Un'inchiesta non semplice, considerato il coinvolgimento di più persone con altrettante testimonianze e lettura dei fatti: «Ci si chiede ad ogni modo perché l'imputato avesse nel baule delle mazze da golf se davvero doveva incontrarsi con chi l'aveva picchiato solo qualche giorno prima solo per andare a stringergli la mano e chiarire tutto... Qui qualcosa non quadra».
Come le stesse dichiarazioni dell'imputato che, secondo Respini, «non sono mai state credibili. Una versione la sua costruita sulla base degli elementi che ha potuto consultare prima di essere estradato in Ticino. Diversi per contro gli elementi raccolti dalla Scientifica. È vero che la vittima era considerata una "testa calda", ma l'imputato aveva un interesse preciso. Se è vero, come dice lui, che è intervenuto solo per dividere le parti poteva evitare di scappare e assumersi le proprie responsabilità. Una persona con ampie responsabilità che non ha esitato ad associarsi con altre persone per commettere dei gravissimi fatti, pieno d'odio per quello che gli avevano fatto».
Proscioglimento è stata, invece, la parola utilizzata dalla difesa sostenuta dall'avvocato Sandra Xavier: «Cosa sia successo quella sera lo possono sapere solo cinque persone. Delle quattro sentite si sono avute quattro versioni diverse. Difficile dunque il compito di ricostruire i fatti». Fatti, che secondo il legale, ha già un colpevole, ovvero il concittadino già condannato dallo stesso giudice Ermani otto anni fa: «Il mio assistito ha sempre rilasciato dichiarazioni lineari e costanti, anche in aula, e molti i riscontri oggettivi agli atti. Chi ha assistito ai fatti è stato diversamente condizionato nelle sue dichiarazioni da elementi fortemente emotivi che portano quantomeno a richiamare il principio giuridico dell'in dubio pro reo». Un'arringa che ha evidenziato come l'imputato non fosse «invischiato nel mondo della prostituzione. Ha sempre lavorato seppur in nero, confortato anche dal fatto che portava avanti uno stile di vita rivolto al risparmio. Non frequentava postriboli e non vi sono riscontri che fosse legato a quel tipo di giro, tanto che l'ipotesi accusatoria vacilla. I fatti di Bissone non furono una vendetta ad opera del mio assistito. Fatti per i quali, diversamente, l'accoltellatore è già stato condannato, in quanto sì lui voleva imporsi come il più forte».
Perché la Corte dovrebbe credere all'imputato? «Si è contraddistinto fin dal primo giorno per la sua sincerità – ha ribadito la difesa –. In tutte le sue dichiarazioni si è dimostrato lineare. La verità è una sola e non ha fatto altro che raccontarla dal primo giorno. Non è un attaccabrighe ed è estraneo a qualsiasi volontà omicida. Quando è scappato ha avuto paura per sé, per la sua famiglia. Paure fondate. Scappare non significa sempre riconoscersi colpevoli». La sentenza, come anticipato, domani mattina.