‘Flashback’, disturbi del sonno, sensi di colpa. L’appello della psicologa Chiara Ferrazzo Arcidiacono: ‘Rivolgersi a uno specialista fa la differenza’
Nel mezzo della frana di Fontana Shila ha perso l’orientamento e nello stesso tempo ha perso sé stessa. «Non sapevo più dov’ero e sentivo la testa girare», ricorda. «Vedere le immagini dall’alto in foto è una cosa che già impressiona, ma esserci dentro, nel cuore, è totalmente diverso». Prima c’era stato il ponte di Visletto, a 10 minuti a piedi da casa, crollato. Poi il Piano di Peccia, in una delle case devastate dalla furia dell'acqua e del fango. «Qui in Valle ci si conosce più o meno tutti; e quel giorno ero entrata nella casa di una famiglia a me molto cara. Il papà osservava l'album fotografico dei propri figli, tutto infangato, e piangeva, davanti a me. Sopportare quella situazione è stato difficilissimo».
Sembra non rimarginarsi mai, la grande ferita inferta dall’alluvione di fine giugno all’Alta Vallemaggia. Shila Dutly Glavas, nostra collega al giornale, ha vissuto il disastro prima a Cevio, dove abita, poi da giornalista, nei giorni immediatamente successivi, per raccontare, dai luoghi trasfigurati dal maltempo, l’inimmaginabile che era accaduto. Luoghi a lei cari come Visletto, Fontana, Piano di Peccia. La Bavona. Mille ricordi su cui in un attimo è calato il bianco e nero.
Tutto comincia nel cuore della fatidica notte fra il 29 e il 30 giugno: «Sono stata svegliata da mia mamma. Mancavano acqua ed elettricità. Non c’era campo per i telefoni. Nell’aria un fortissimo odore di terra bagnata. “È successo qualcosa di grave”, mi aveva detto. E la cosa era stata confermata da mio papà, che ci aveva dato la notizia più incredibile: “Il ponte di Visletto non c’è più”. Noi non riuscivamo a crederci. Poi mi aveva chiesto di assolutamente non uscire di casa fino alle prime luci dell’alba. Ma gli avevo disobbedito».
Giunta al ponte, Shila trova conferma: la piattaforma del ponte è in acqua. «Mi tremavano le gambe, quell’immagine era inverosimile. Poi ricorderò sempre lo sguardo di papà quando mi sono presentata alla caserma dei pompieri, dove stava dando una mano e c’era già un viavai di persone: “Questi sono i sopravvissuti – mi aveva detto, indicandoli –. Perché purtroppo ci sono stati dei morti”». Nei giorni successivi era capitato di tutto: «Oltre a quelle della tragedia, scene inimmaginabili. Ad esempio quella di una mamma che doveva dare del latte in polvere a suo figlio ma non avendo acqua era disperata e aveva avuto una crisi di nervi davanti a tutti. Oppure un ragazzo che si era intestardito nel tentativo di voler attraversare la Maggia passando per la ciclabile situata proprio accanto al ponte. Sosteneva di avere un appuntamento con degli amici a Locarno. Gli agenti della polizia l'avevano rincorso e bloccato, dicendogli che gli ordini erano di tenere le persone ferme al di qua del ponte. Pure altri compaesani l'avevano poi ripreso duramente».
Da una parte, lavorando come giornalista proprio sui luoghi del disastro, «avevo messo una maschera – ricorda Shila –. Non ero, non potevo essere la ragazza spaventata, perché avevo una missione da compiere». Poi però, quando ha potuto staccare, i nodi sono venuti al pettine: “flashback” sentendo il solo rumore di un elicottero in volo, sensi di colpa per essere scampata a ciò che invece aveva colpito altri. E uno strano disturbo del sonno: «Ogni notte, da allora, mi sveglio alle 3.17. Prima non riuscivo a riprendere sonno. Oggi per fortuna sì. Ma ancora oggi, a 4 mesi di distanza, mi sento in una gabbia da cui non posso uscire. Basta un odore, o un suono, e torno a quei giorni terribili. L’appello che vorrei fare a chi, come me, ancora porta delle ferite, è farsi aiutare. Perché parlare aiuta. Tacere, rimuginare, continuare a soffrire, cercando di fare finta di niente, no».
La testimonianza diretta nasce da una notizia piuttosto sorprendente: sono state poche, le persone che hanno deciso di far capo all’iniziativa di supporto lanciata dal Servizio di psicologia clinica e psicoterapia dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC). A luglio, con un flyer distribuito a tappeto in Vallemaggia, l’OSC si rivolgeva alle persone intimamente più colpite dal disastro proponendo un sostegno psicologico a scopo preventivo, garantendo “un canale di accesso alle cure in favore di coloro che ne sentano la necessità, aiutandoli a gestire e superare le difficoltà vissute e recuperare quanto prima il miglior benessere mentale”. Nell’elenco dei sintomi da non sottovalutare c’erano i “flashback”; problemi persistenti di sonno, incubi, sogni ricorrenti e angoscianti; paura costante e sensazione di pericolo; pensieri intrusivi, disturbanti e ripetitivi sull’evento traumatico; alterazioni negative di pensieri e di umore; alterazioni nella reattività come maggiore irritabilità, vigilanza eccessiva, insonnia o sonno disturbato; e comportamenti a rischio quali autolesionismo, uso anomalo di alcol o farmaci.
Laddove fossero ravvisati, questi campanelli d’allarme non dovevano (e non devono tuttora) venire ignorati, ma ascoltati attentamente e poi condivisi o con il medico curante oppure direttamente chiamando il Centro di contatto OSC dei Servizi psico-sociali (0848 062 062, h24) o il Servizio medico-psicologico in caso si trattasse di minorenni (091 816 26 11, orari d’ufficio), che dispongono degli strumenti per affrontare situazioni di questo genere. In che misura ciò sia avvenuto, “laRegione” lo ha chiesto a Chiara Ferrazzo Arcidiacono, responsabile del Servizio di psicologia clinica e psicoterapia dell’OSC. «In misura molto ridotta – è la risposta –. Le persone che si sono rivolte ai nostri servizi sono state poche e la cosa ci ha solo in parte sorpresi. Forse rivolgersi all’ente pubblico per affrontare temi legati alla sofferenza psicologica può incutere timore, e c’è ancora una certa resistenza a farsi aiutare in quest’ambito. Spero, tuttavia, che chi ha realmente avuto bisogno di supporto si sia sentito incoraggiato a cercarlo, magari in ambito privato».
La psicologa Ferrazzo Arcidiacono ricorda che «l’alluvione di fine giugno è stato un evento che ha toccato la sensibilità collettiva: in Ticino, ma anche oltre Gottardo. Eventi di questa portata hanno delle conseguenze potenzialmente traumatiche per la salute mentale delle persone coinvolte, ma catalizzano molte risorse e aiuti ed effettivamente la risposta delle autorità e dei privati è stata molto solidale. Tale aspetto ritengo abbia contribuito a corroborare la resilienza dei nostri concittadini coinvolti, pertanto, al momento, gran parte di loro non ha necessitato una presa in carico».
Annota ancora Ferrazzo Arcidiacono che «la bibliografia scientifica in merito a situazioni analoghe ci rende attenti sul fatto che una piccola percentuale di persone ha invece maggiori fattori di vulnerabilità nel sviluppare una sintomatologia (ad esempio ansietà, depressione, sbalzi d’umore, malesseri generali, difficoltà di concentrazione, incostanza sul lavoro ecc.) che necessita di una presa a carico specialistica. In casi come questi, si interviene con una consulenza psicologica solo quando i sintomi post emergenza non si normalizzano e le persone non riescono a sviluppare strategie di “coping” efficaci per affrontare e gestire l’evento traumatico in modo autonomo. All’interno della complessa rete di chi ha prestato aiuti a più livelli, l’OSC ha contribuito realizzando il flyer che è stato inviato qualche settimana dopo i fatti, in quanto il “first aid” era stato messo in campo dal “Care Team Ticino” il cui lavoro, nei giorni successivi all’alluvione, non è certo mancato ed è stato molto prezioso. I nostri colleghi permangono disponibili a ricevere la segnalazione di chi lo ritenesse opportuno, sia per una presa a carico, sia per una consulenza».
Il coordinatore del “Care Team”, Massimo Binsacca conferma quanto espresso dalla responsabile del Servizio di psicologia: «Da valmaggese posso dire che la Vallemaggia è un luogo particolare, come particolari sono i suoi abitanti, decisamente resilienti e in parte probabilmente refrattari a esprimere disagi psicologici, anche se ci sono. Non mi stupisco quindi che in pochi abbiano deciso di rivolgersi al Servizio psicosociale. Tuttavia, pur premettendo che noi del “Care Team” non siamo la panacea per tutti i mali, probabilmente abbiamo svolto un buon lavoro sull’immediato. All’inizio, vedendoci, in molti erano reticenti; poi, pian piano, chi ne sentiva il bisogno ci aveva contattato, anche solo per parlare di quanto aveva vissuto e in qualche modo “normalizzarlo”. Per la gente è stato importante sentirsi dire che non stava impazzendo, perché è del tutto naturale che il corpo e la mente rispondano a una situazione traumatica ed eccezionale. C’è chi non dorme, chi ha paura, chi perde l’appetito; magari un bambino torna a fare la pipì a letto. Ognuno reagisce a modo suo. Se però nel giro di 3-4 settimane i sintomi non passano, è bene che vi sia una presa a carico».
Dopo il disastro il “Care Team” aveva seguito sul posto circa 150 persone, ricorda Binsacca: «Sull’arco di 10 giorni ho impiegato 30 “caregiver” o “peer” della polizia o dei pompieri. Solo del “Care Team” erano stati in totale 23, che venivano quando potevano. Posso dire che si è trattato dell’evento più clamoroso del quale ci siamo occupati come “Care Team Ticino”: come risorse, tempo e coinvolgimento emotivo, anche per il sottoscritto e diversi miei “caregiver” che, come me, sono valmaggesi. Conosciamo le persone: trovarle in determinate condizioni è stato ancora più impattante».
La psicologa Ferrazzo Arcidiacono aggiunge che «ormai sono passati 4 mesi, pertanto se qualcuno si riconoscesse nei sintomi descritti prima, probabilmente possiamo parlare di PTSD, ossia disturbo da stress post traumatico. Il PTSD è una reazione psicologica che si sviluppa dopo aver vissuto un evento traumatico, caratterizzato da sintomi persistenti (come quelli descritti nel nostro flyer) che interferiscono con la vita quotidiana e impattano sul benessere della persona. Questo disturbo può anche manifestarsi con sintomi come l’incapacità di dormire dovuta all’ipervigilanza o iperattivazione, oppure con una tendenza a dormire eccessivamente come forma di fuga da una realtà troppo difficile da affrontare. In alcuni casi possono anche comparire sintomi depressivi, riflettendo la difficoltà di elaborare l’impatto del trauma. Quando il trauma riguarda la propria casa, entrano in gioco significati profondi legati alla sicurezza e all’identità personale».
In conclusione, l’appello di Chiara Ferrazzo Arcidiacono è chiaro: «Rivolgersi a uno specialista in un’ottica preventiva può fare una grande differenza. Non sempre è necessario un percorso psicologico strutturato, ma chi avverte un disagio dovrebbe superare eventuali esitazioni e resistenze e cercare il supporto di un professionista. Nessuno è invulnerabile, prendersi cura di sé è un atto di forza e consapevolezza».