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Lotte e resistenze indigene, in capanna il caso colombiano

Al Legn, sopra Brissago, un singolare, intenso e simbolico incontro promosso da Comundo per smuovere la comunità internazionale

Un piccolo gruppo con un grande interesse per i diritti dei popoli indigeni
(foto Comundo)
31 luglio 2024
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A volte salire ai monti può essere una soluzione quando nelle città e nelle pianure ci sono problemi. Le montagne sono state rifugio in varie occasioni nella storia. Quelle sul confine italo-svizzero, per esempio, sono state testimoni di tanti viaggi della speranza, tra chi contrabbandava merci e chi fuggiva da nazisti e fascisti durante la Seconda guerra mondiale.

Incontrarsi alla capanna Al Legn, sopra Brissago, per discutere di lotte e resistenze indigene in situazioni di conflitto ha quindi un valore simbolico molto forte: è quello che hanno proposto i cooperanti di Comundo Laura Kleiner e Tullio Togni, che hanno invitato gli amici in alta quota per ascoltare le testimonianze di alcuni rappresentanti dei popoli indigeni colombiani con cui lavorano e che li hanno accompagnati in un viaggio che si può anche definire della speranza. Hanno infatti partecipato alla 17ª sessione del Meccanismo di esperti sui diritti dei popoli indigeni dell’Onu, che si è tenuta dall’8 al 12 luglio a Ginevra.

La speranza è quella di smuovere la comunità internazionale affinché si decida di occuparsi dell’emergenza umanitaria in corso in Colombia: il conflitto armato e la violenza si sono intensificati negli ultimi anni, nonostante la firma degli accordi di pace.

La montagna come rifugio

Il confine immaginario tra Italia e Svizzera è varcato da numerosissimi sentieri, oggi diventati anche trekking tematici, percorsi da chi contrabbandava merci tra le due nazioni: riso, tabacco, caffè, zucchero, tutto quello che mancava. Gli “spalloni” varcavano il confine di notte, d’estate e d’inverno, con i loro carichi da trenta, cinquanta, fino a settanta chili. Un viaggio andato a buon fine poteva significare sfuggire alla miseria per qualche settimana. Tali sentieri si sono spesso anche trasformati in possibilità di salvezza: lontani dai valichi ufficiali, cercavano di entrare in Svizzera ebrei, partigiani, disertori, intere famiglie che temevano rappresaglie dei nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale.

Un legame di amicizia

La scelta di salire Al Legn è stata facilitata anche da una capannara speciale: Barbara Müller, che da una decina d’anni dedica un paio di settimane alla gestione della capanna Al Legn durante la stagione estiva, è amica di Tullio e Laura: «Ci siamo conosciuti quando ero responsabile della formazione dei volontari che partivano per il Guatemala, la Colombia e la Palestina per Peace Watch Suisse – ricorda Barbara –. Sono persone molto in gamba e poter collaborare con loro è fantastico!». Molti dei partecipanti si sono infatti conosciuti in Guatemala, come Tullio e Laura stessi, mentre altri sono militanti di diverse associazioni e movimenti per l’autodeterminazione dei popoli: difensori della causa palestinese, sostenitori dei paesi baschi, zapatisti. Un bel gruppo di idealisti, insomma.

Ci vuole effettivamente una buona dose di idealismo per far fronte alle difficoltà vissute dalla popolazione colombiana: nonostante gli accordi di pace del 2016, nel Paese si sono intensificati gli attacchi sistematici all’integrità fisica e alle caratteristiche etno-culturali dei popoli indigeni, alcuni dei quali si trovano in situazione di estremo rischio. È il caso per il popolo Je’eruriwa, racconta Oswaldo Rodriguez Macuna (Ipurepi, nella sua lingua), rappresentante del popolo Je’eruriwa e guida spirituale: «Negli anni abbiamo subito tante persecuzioni e siamo a rischio di sterminio, fisico e culturale. All’arrivo dei bianchi nelle nostre terre, una parte del mio popolo ha deciso di rifugiarsi all’interno della foresta al confine tra Colombia e Brasile, rifiutando il contatto con gli occupanti. Gli altri, tra cui la mia famiglia, sono stati sfollati, costretti ad allontanarci dalle nostre terre e dal nostro modo di vivere».

Oggi, sono rimasti in poche decine e combattono per il rispetto dei loro diritti e la salvaguardia della loro cultura: «Abbiamo tutti i conoscimenti ancestrali che ci permetterebbero di vivere in armonia con la natura, di prendercene cura, di garantirci un futuro, ma non ci ascoltano. Nessuno si ascolta più davvero, ci stiamo allontanando dalla nostra natura di esseri umani: dovremmo essere qui per fare del bene, e invece...».

Si commuove, Ipurepi, tale è il trasporto con cui cerca di spiegarci la sua visione della fratellanza tra popoli. Tanto che poi, alla fine del suo discorso, lui che è anche guida spirituale del suo popolo, ci propone un piccolo rituale di guarigione: «Prendiamoci per mano, guardiamoci e rendiamoci conto che siamo tutti uguali. Poco conta dove sei nato e il colore della tua pelle, abbiamo tutti lo stesso compito da portare avanti su questa terra. Nasciamo per vivere in armonia tra di noi, ma anche con la terra, gli alberi, l’acqua, le stelle. Dobbiamo cercare questa verità dentro di noi, e fare in modo che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni, la rispecchino».

Partire dalla terra

Quando gli chiediamo di posare per una foto, Oveimar Tenorio, coordinatore politico della Guardia indigena del Cric, sceglie due simboli: la Whipala, bandiera multicolore che rappresenta i popoli dell’impero Inca, e la bandiera del Cric, il Consiglio regionale indigeno del Cauca, l’organizzazione colombiana che rappresenta e in cui lavora Tullio Togni come cooperante di Comundo. «La bandiera del Cric è verde, per la terra che ci ospita e la natura che ci nutre, ma anche rossa, per il sangue versato». Oveimar sa benissimo di cosa parla: negli ultimi due anni ha ricevuto sette minacce di morte, per il suo ruolo di coordinatore politico della Guardia indigena del Cric. La guardia indigena è composta da uomini, donne, bambine e bambini, persone anziane. Riunisce 12mila persone che difendono le popolazioni indigene dai continui attacchi per l’occupazione della terra da parte dei gruppi armati, del narcotraffico, delle grandi multinazionali. «Abbiamo deciso di non allontanarci dai nostri valori ancestrali, per questo pratichiamo la non violenza: l’unica arma che usiamo è la parola». Ancora una volta, i popoli indigeni propongono un’alternativa concreta alla guerra: «È necessario cercare la verità, generare memoria su quello che è successo e creare le basi per la non ripetizione della violenza», conclude Oveimar.

‘Vogliamo farci sentire’

Ma perché venire fino in Svizzera? Perché vale la pena sobbarcarsi le spese e la fatica di un viaggio in terra straniera per parlare dei propri diritti umani calpestati? «Per farci sentire», risponde sicuro Francisco Henao, che è avvocato e lavora con Laura Kleiner alla Corporación Jurídica Yira Castro. Il loro compito è proprio sostenere le popolazioni sfollate e lottare contro l’impunità, che purtroppo è la norma in Colombia: nonostante la firma degli accordi di pace nel 2016, le violenze e i soprusi continuano, sfollamenti forzati, assassinii, torture avvengono addirittura a un ritmo e un’intensità maggiore di prima: «Esistono leggi e giurisprudenza che dovrebbero assicurare la giustizia, spessissimo i colpevoli sono conosciuti, ma non vengono processati – ci spiega Henao –. Per questo ci appelliamo alla solidarietà internazionale: vogliamo fare pressione e appellarci ad alcuni meccanismi dell’Onu per la difesa dei diritti umani». Il lavoro può essere sfiancante, conferma Laura Kleiner, ma non si può mollare: «Continueremo a lavorare a livello locale e internazionale, con tutti gli strumenti a nostra disposizione».

Il contributo di Comundo

Ecco perché è importante che il lavoro di organizzazioni come Comundo, che finanzia la presenza di Laura Kleiner e Tullio Togni in Colombia e che ha permesso questo viaggio di sensibilizzazione in Svizzera, possa continuare: «Lavoro per un’organizzazione del dipartimento del Cauca che raggruppa e rappresenta 11 diversi popoli indigeni. Il mio ruolo all’Osservatorio dei diritti umani, al fianco di colleghe e colleghi colombiani, mi permette di raccogliere informazioni di prima mano – precisa Togni, antropologo –. Questo ci ha permesso per esempio di consegnare al relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni un rapporto sul contesto attuale e la violenza socio-politica che stanno vivendo i popoli indigeni».

Sperando che oltre alle denunce e alla repressione, ci sia anche spazio per la guarigione e la ricostruzione: «Sarebbe bello pensare che questa splendida vista di cui abbiamo goduto qui Al Legn ci aiuti ad allargare gli orizzonti e a trovare l’armonia tanto cara ai popoli indigeni con cui lavoriamo», conclude Togni.

Comundo è un’organizzazione non governativa che promuove la cooperazione internazionale per un mondo più giusto. Lo fa sostenendo organizzazioni locali in Africa e in America Latina che sono attive nel campo dei diritti umani, della protezione dell’ambiente o della formazione. Oltre al sostegno finanziario, Comundo promuove soprattutto lo scambio di conoscenze, competenze ed esperienze, inviando cooperanti specializzati che lavorano al fianco di colleghi locali che cercano di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni svantaggiate, per periodi relativamente lunghi: da uno a tre anni almeno. Attualmente sono circa un’ottantina le persone cooperanti attive in Colombia, Bolivia, Perù, Nicaragua, Kenya, Namibia e Zambia. Maggiori informazioni su www.comundo.org/it.

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