Gli alpi di Mergozzo e Nimi, sopra Gordevio, combattono ad armi impari contro il predatore, i tempi istituzionali e un sentimento di incertezza
Poi, improvvisamente, a soverchiare il sentimento di impotenza arriva la commozione: Lisa chiede un attimo di tempo perché non può più trattenere le lacrime. Un conto sono la burocrazia, la tempistica delle analisi del Dna sulle carcasse delle capre predate dal lupo, la rabbia per una situazione di conclamata gravità che perdura e per la quale è tremendamente difficile trovare una soluzione; un altro l’immagine delle capre al pascolo, il legame affettivo con gli animali, l’attaccamento a una tradizione territoriale e familiare che è anche passione, ed evoca ricordi come quello di Mary, la bisnonna che da vedova con 4 figli diede inizio a tutto, o aneddoti del presente come l’amore con cui Clara, la prozia di 87 anni, nella casa anziani tiene via il pane e lo spezzetta affinché le nipoti lo possano portare all’alpe, da dare agli animali che lei stessa aveva tenuto fino a qualche anno fa.
È una storia significativa, quella raccontata da Lisa Maddalena, 29enne, agronoma, a proposito dell’Alpe Mergozzo, sopra Gordevio, che assieme ai familiari continua a caricare per perpetuare, a costo di mille sacrifici, passione e tradizione. «È chiaro, l’attività non rende molto: è soprattutto lavoro. Per alcuni di noi è un hobby di famiglia, per gli altri tre proprietari dei greggi di capre però è un’attività lavorativa necessaria al loro sostentamento – racconta la giovane –. Sopra Gordevio, lungo la Via Alta della Vallemaggia, c’è infatti anche l’Alpe Nimi, con la sua capanna. Siamo gli ultimi due alpeggi della Bassa Vallemaggia dove si è deciso, malgrado mille difficoltà, di proseguire una tradizione secolare. Per dire: l’ultima strada percorribile in auto rimane per noi mille metri di dislivello sotto Mergozzo. Quindi o ci arrivi a piedi, o in elicottero».
Se non fosse per la passione, ribadisce Lisa, «avremmo già smesso da un pezzo. Quando ancora c’erano i miei nonni pascolavano anche le mucche, poi noi abbiamo deciso di tenere solo le capre. Ognuno fa la sua parte: ci sono i proprietari degli animali, i casari che si danno il cambio, gli aiuti, chi fa il fieno in valle; a casa la zia che imballa i prodotti da vendere. Io per garantire una presenza prendo vacanza: sono appena scesa dopo una permanenza di 3 settimane per fare il formaggio; prima, lo stesso aveva fatto un mio cugino per 15 giorni, e un altro cugino per un mese».
E ci sono loro, le capre, compagne di vita agreste e molto più di questo. Perché, come detto, al lavoro e ai sacrifici aggiungono la componente affettiva. I nomi, la preferita di papà, le abitudini. Conoscersi. «Quando siamo saliti, a fine maggio, ne avevamo in totale circa 120, cui vanno aggiunti i circa 130 capi dell’Alpe di Nimi». Poi sono iniziati gli attacchi del lupo: «Ce n’erano stati anche negli anni scorsi, ma erano situazioni isolate, con poche predazioni. Quest’anno invece c’è un lupo che sta approfittando della situazione: dal 9 giugno in avanti noi abbiamo subito 11 attacchi e altri 3 hanno colpito Nimi. Siamo, complessivamente a una trentina di capi persi, fra morti, feriti gravemente o dispersi, ma questi numeri sono in continua crescita».
A causa della particolare morfologia del territorio, precisa Lisa Maddalena, non tutte le capre e non sempre sono a portata di vista: «Noi non vediamo dove vanno a mangiare. Con tanto bosco, e quei pendii particolarmente ripidi, dove si fatica a stare in piedi anche di giorno, l’individuazione è problematica, come anche il recupero delle carcasse dopo le predazioni. Abbiamo un Gps, ma solo su due capre. Sono piuttosto costosi».
Il grosso problema, prosegue, «è che contro gli attacchi non possiamo intervenire in alcun modo. Due anni fa, dopo la visita di un funzionario del Cantone, era stata decretata la non proteggibilità dei due alpeggi, ma ciononostante abbiamo comunque cercato in ogni modo di applicare misure urgenti di protezione come la chiusura delle capre di notte in recinti di fortuna. Tuttavia, per vari e validi motivi non tutte le capre possono sempre essere rinchiuse, innanzitutto per il fatto che abbiamo due greggi a Mergozzo, e uno di questi si sparpaglia ovunque ogni giorno. Le capre sono animali testardi, se da decenni sono abituate ad andare a mangiare la sera non si riesce a far cambiar loro idea facilmente. Quindi il lupo può facilmente spostare i suoi attacchi contro quelle che non riusciamo a rinchiudere (anche perché, proprio di notte, si nutrono, visto che di giorno fa troppo caldo e non mangiano)».
Inoltre, continua Lisa, «il carico emotivo non è da sottovalutare. Quando vuoi bene ai tuoi animali, li conosci tutti e cento per nome, e poi li trovi feriti mortalmente o a pezzi, allora è davvero devastante» Un altro punto che sta a cuore alla giovane è il tipo di agricoltura sostenibile e attenta ai bisogni dei suoi animali che la sua famiglia vuole portare avanti: «Convivere con il lupo significa recinti, capre in gabbia che diventano più aggressive negli spazi ristretti a cui sono confinate, più malattie, specialmente agli zoccoli, e animali che mangiano meno perché non sono abituati alla calura. Si aggiunge una manodopera sproporzionata per il carico di lavoro aggiuntivo nel rinchiudere le capre o per cercare le carcasse o le disperse anche in luoghi molto impervi. Non dimentichiamo i costi per le cure degli animali, e l’enorme sollecitazione della nostra veterinaria, che ringraziamo di cuore, già salita d’emergenza 4 volte quest’anno. A tutto ciò si aggiunge una minor produzione di latte, dato che le capre mangiano meno e sono perennemente stressate e in allerta».
Ebbene, così come la conferma scritta della non proteggibilità dell’alpe tarda ad arrivare, allo stesso modo «ancora non abbiamo riscontri dalle analisi che abbiamo richiesto il 17 giugno su parti di carcasse dopo gli attacchi del lupo. Secondo la Legge, la possibilità di un abbattimento scatta dopo 6 predazioni dello stesso esemplare nello spazio di 4 mesi (e tra l’altro una capra solo ferita non può nemmeno venir conteggiata, a meno che l’allevatore stesso non sia costretto ad ucciderla a causa delle sue condizioni, cosa che è successa già 3 volte ormai). Ma fintanto che non abbiamo notizie supplementari, non c’è margine d’azione».
Secondo Lisa Maddalena e la sua famiglia di alpigiani per passione e tradizione, «spiace dirlo, non si vuole fare polemica, ma da parte delle autorità non c’è sufficiente reattività: passano le settimane e i mesi e il lupo continua a servirsi a suo piacere. Non è una critica contro l’Ufficio cantonale caccia e pesca, che davvero, con i suoi guardiacaccia, sta facendo il possibile per sostenerci, a partire dalle diverse visite in loco o dal recupero del materiale da analizzare (che viene poi spedito al Kora, una fondazione con sede a Ittigen che si occupa di ecologia dei carnivori e gestione della fauna selvatica). Dal Kora abbiamo solo saputo che in effetti abbiamo a che fare con un lupo (d’altra parte i miei genitori l’hanno osservato mentre rincorreva delle capre) ma non si sa se sia sempre lo stesso. Misure supplementari come la posa di fototrappole o tiri dissuasivi sarebbero potute essere d’aiuto».
In sostanza, conclude, «noi non vogliamo neppure mettere in discussione i diritti di esistere del lupo, ma qualche paletto andrebbe messo con urgenza perché se no per gli allevatori diventa una via crucis. Al momento nulla possiamo fare per fermare una serie inesauribile di aggressioni impunite. La legislazione in vigore non protegge gli alpeggi come i nostri perché ha troppe lacune. Il tema è troppo politicizzato e appesantito da eccessiva burocrazia. Per non parlare delle misure proposte, incoerenti e poco efficaci. Il risultato è quello di scoraggiare chi ancora ha la pazienza e la passione di tenere gli alpeggi, spingendoli a chiudere i battenti».