È tornato in aula il giovane iracheno, in carcere da oltre un anno per aver aggredito un 18enne nella Rotonda di Locarno
Due facce della stessa medaglia. Il 19enne iracheno, che con il fratello 21enne era stato condannato lo scorso luglio dalle Assise criminali a due anni e mezzo di carcere e all’espulsione dalla Svizzera per dieci anni, è comparso stamane di fronte alla Corte d’appello e revisione penale (Carp), presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will (giudici a latere: Rosa Item e Francesca Lepori Colombo). L’imputato ha potuto raccontarsi, mettendo l’accento su sfumature che in prima istanza non erano emerse. Di etnia curda, ha parlato della sua infanzia, contrassegnata da un clima di violenza: i primi sei anni di vita in Iraq, nel 2009 la fuga dalla guerra e poi in Ticino, con il padre che lo picchiava. A 13 anni è stato tolto dalla sua famiglia, passando in diversi istituti. E da quel momento è emersa l’altra faccia della medaglia: si è costruito addosso una corazza difensiva, fatta di reazioni eccessive e violente a qualsiasi tipo di provocazione. Ma ora ha capito e sta imparando, grazie a un lungo percorso psicoterapeutico, a dominare questa sua istintività. Ritiene perciò di meritare una nuova occasione, se non sarà espulso dal suolo elvetico quando, il 19 giugno del 2024, uscirà dal carcere.
Questo, in sintesi, quanto emerso nel corso del processo. I fatti del 4 dicembre 2021, quando il 19enne e suo fratello aggredirono un ragazzo mandandolo all’ospedale, non sono stati contestati né dall’imputato né dal suo avvocato Immacolata Iglio Rezzonico. Di fronte alla giudice, il giovane ha ripercorso la sua vita (per i due terzi trascorsa in Ticino). Tolto dalla famiglia è stato collocato prima in un centro di pronta accoglienza a Mendrisio, poi in un istituto a Bellinzona. Un percorso contrassegnato da una sua ribellione, dal rifiuto di andare a scuola e di seguire alcune regole. Solo in un foyer luganese aveva ritrovato un po’ di fiducia. A 16 anni è tornato a Bellinzona, alloggiato in un appartamento finanziato da una fondazione. Pochi i successi scolastici (licenza media e un anno di "Commerciale" concluso in carcere); poche anche le soddisfazioni professionali (qualche breve stage, ma senza continuità).
Nel corso del dibattimento la giudice ha elencato i suoi precedenti. Reati commessi quando ancora era minorenne: l’aggressione a un ragazzo durante il Carnevale di Cadenazzo nel febbraio 2019; violazione della legge sulle armi per un coltello che gli era stato trovato in tasca in un’altra occasione; il 6 giugno 2020 una nuova aggressione a Bellinzona; in seguito una rissa ripetuta a Locarno e, infine, violenza e minaccia su agenti della Polizia ferroviaria. Il curriculum si conclude con il pestaggio del 18enne nella Rotonda, per il quale si trova tuttora in carcere.
Nel fornire spiegazioni sui diversi episodi, come ha fatto notare Roggero-Will, il 19enne tende a scaricare la colpa sugli altri, affermando di aver reagito a provocazioni. Ma perché tanta violenza? «Nell’infanzia ho subìto io stesso la violenza; poi ho creato una mia corazza e sono passato al contrattacco per non farmi più sottomettere. Ma in carcere ho avuto tempo di riflettere e ho capito che ci sono altri modi per reagire, meno impulsivi». Una riflessione, come lo stesso imputato ha ammesso, nata da un percorso psicoterapeutico iniziato otto mesi fa e che dovrà proseguire. «Ho imparato ad avere pazienza e a gestire la mia rabbia in situazione problematiche. L’aggressività è sempre una risposta sbagliata». In carcere ha potuto esercitare questa sua nuova "filosofia di vita", evitando anche contrasti con il suo stesso fratello: «Visti i conflitti fra noi, ho chiesto di farmi spostare in un altro blocco».
Su richiesta del suo avvocato, l’imputato ha poi letto una lunga lettera di scuse, che tuttavia è apparsa in massima parte una sorta di giustificazione delle sue azioni. Però, in conclusione, rivolgendosi soprattutto al 18enne picchiato a Locarno ha affermato convinto: «Chiedo umilmente scusa dal profondo del cuore per il male, l’angoscia e il dolore che ho provocato. Sono pronto a risarcire, un po’ per volta, il danno morale».
Approfittando di questo momento di pentimento, la procuratrice pubblica Valentina Tuoni ha fatto un tentativo per cercare di sapere – finalmente – l’identità dei giovani che con i due fratelli iracheni hanno aggredito il 18enne il 4 dicembre 2021. I loro nomi, lo ricordiamo, non sono mai stati rivelati durante l’inchiesta. Ma anche nell’aula della Carp non sono emersi: «Non li conosco», ha affermato il 19enne.
Sempre Tuoni, nella sua arringa, ha chiesto alla Corte di respingere l’appello, ricordando che la legge, nel caso in cui un cittadino straniero è condannato per aggressione, obbliga il giudice a chiedere l’espulsione. La procuratrice ha poi passato in rassegna gli elementi che fanno propendere per questa decisione: «Il giovane non ha famigliari in Svizzera, non ha completato gli studi, non ha colto le molte possibilità che gli sono state offerte per integrarsi, preferendo la logica del branco. In Iraq avrà l’opportunità di rifarsi una vita con la madre, che già abita là, e il fratello».
Diversa la tesi della difesa, secondo cui, appartenendo a una minoranza curda, il ragazzo va incontro a persecuzioni: «In Iraq dovrà fare il militare per combattere l’Isis. Laggiù non ha più legami famigliari e suo padre non lo vuole accogliere. Sarebbe uno straniero, con una madre separata e senza prospettive. Dopo 13 anni in Ticino non conosce più il curdo e non parla bene neppure l’arabo. Qui da noi ha legami sociali, relazioni affettive, adulti di riferimento (i genitori del suo migliore amico) e vuole continuare gli studi. La psicoterapia, che proseguirà, lo ha aiutato a comprendere i suoi errori. Si tratta di una questione di proporzionalità; occorre valutare se l’interesse pubblico dell’espulsione deve prevalere sull’interesse privato. Una valutazione che non può limitarsi a considerare il reato che ha commesso. Dell’Iraq ha solo la cittadinanza. Ci sono tutti gli elementi per applicare il grave caso di rigore e quindi per non espellerlo».
La parola è infine passata di nuovo all’imputato: «Quel Paese – ha affermato – non lo sento mio. Siamo scappati dalla guerra nel 2009. Posso e voglio diventare una persona migliore. La Svizzera è casa mia». La decisione della Carp arriverà nelle prossime settimane.