Aumentano (a macchie di leopardo) le sedi di tutti gli ordini che sposano il ’credo’. Il primo ingrediente: Direzioni sensibili
«La differenza, se c'è, è piuttosto un problema nostro, di adulti. Lo sguardo dei ragazzi è uno sguardo che non etichetta». Non potrebbe essere più chiaro, Paolo Iaquinta, per illustrare la sua visione di diversità, di integrazione ed inclusione nel contesto scolastico. A Minusio, sede di Scuola media di cui è direttore, è partito quest'anno in una classe di prima un progetto inclusivo che favorisce una riflessione a tutto campo sul tema e sulla sua evoluzione nella scuola ticinese.
«Inclusione – dice Iaquinta – non è soltanto strutture, quindi dare un 120%, con un buon docente di pedagogia speciale e un valido appoggio con un secondo docente; non è soltanto avere delle tecniche di differenziazione pedagogica. È, in primo luogo, un'attitudine dell'insegnante, una visione del mondo. Quello stesso mondo fatto di tante persone diverse che convivono in una società unica. Ogni singola classe è una piccola società, che allo stesso modo deve e può accogliere persone diverse fra loro».
L'esperienza di Minusio è stata favorita dalla presenza in sede, da almeno 8 anni, di una docente di Scuola speciale «che pian piano è riuscita ad instaurare un eccellente rapporto con gli insegnanti, integrando alunni a vari livelli e in numero sempre maggiore», ricorda il direttore delle Medie. «Nel marzo scorso avremmo voluto tenere un incontro con tutte le famiglie di prima Media, ma il Covid ce lo ha impedito. È stata l'occasione per inserire il tema nell'opuscolo informativo inviato nelle case degli allievi. A questo era seguito un incontro con le famiglie della sezione inclusiva, la 1. A. Poi è partito l'anno scolastico. Ad oggi non è emerso nessun tipo di problema».
Grazie ai tre allievi di Scuola speciale e alla collaborazione della capo Sezione insegnamento medio, Tiziana Zaninelli, è stato possibile creare a Minusio 4 sezioni da 18 allievi invece di tre grandi da 23-24 allievi. «Ciò – nota ancora Iaquinta – va naturalmente a favore di tutta la comunità scolastica: dei ragazzi e delle loro famiglie, ma anche dei docenti, che beneficiano tutti di una situazione favorevole all'apprendimento. Siamo fortunati perché abbiamo anche un 120% di aiuto per tre allievi; e non è un lusso, perché il lavoro c'è: parliamo di ragazzi che comunque hanno dei bisogni particolari e necessitano quindi di attenzioni più importanti. Lo sforzo c'è, ma ci sarà anche un vantaggio». Grande obiettivo del progetto «è includere in tutte le materie, anche attraverso programmi molto particolari. Per il momento – ma siamo ancora in una fase di valutazione – nessun allievo è esonerato da nessuna materia. Tutto sembra funzionare, e se mai l'entusiasmo tenderà a scemare, sarà nostro compito tentare di rilanciarlo».
La visione di inclusione espressa da Marika Imberti, direttrice dell'Istituto delle Scuole speciali del Sopraceneri, «è conquistare un senso di appartenenza condiviso per mettersi in relazione con le caratteristiche individuali dei singoli, a favore del gruppo. Così le peculiarità di ognuno portano crescita all'intero contesto. La disabilità non è qualcosa di intrinseco, ma un disfunzionamento del tessuto sociale in cui gli individui sono inseriti, perché è lì che manca ancora la capacità di valorizzare e di accogliere le differenze. A livello nazionale e internazionale sono inoltre state fatte delle ricerche che dimostrano come gli alunni di sezioni inclusive non perdono competenze rispetto ai compagni delle sezioni ordinarie». È vero, riflette ancora la responsabile per il Sopraceneri, che l'inclusione si evolve anche in base al contesto storico della scuola. «Il nuovo Piano di studio si prefigge di valorizzare le differenze e le peculiarità degli allievi, ed è un cambiamento rispetto al passato, quando c'era piuttosto una ricerca dell'omologazione e dell'uniformità scolastica».
Paolo Tremante, referente per le classi inclusive sul territorio, viene definito da Imberti «un profilo adeguato per garantire uniformità a livello organizzativo, gestionale e di pensiero». Il docente circostanzia dunque la tematica ricordando che «obiettivo nella Scuola media è dare l'opportunità a ragazzi con bisogni educativi speciali di appartenere a un “gruppo classe”, vivendo un'esperienza il più normalizzante possibile con dei coetanei, e che sia il più possibile fruibile dal punto di vista delle competenze che devono acquisire a livello scolastico». Per far partire una classe inclusiva serve tutta una serie di elementi, a partire dalla presenza perdurante di una classe di Scuola speciale nella sede, con docenti che conoscono il contesto e hanno la fiducia della Direzione. «È poi molto importante la conoscenza reciproca fra docenti di Scuola speciale e docenti di Scuola media. Da lì, piano piano, si costruisce qualcosa che può funzionare».
Dal profilo storico, classi di scuola speciale sono nate nel '75 e sono sempre state integrate negli stabili di Scuola elementare o di Scuola media. Partendo da queste situazioni si sono create le collaborazioni con le classi di scuola “regolare”. La prima esperienza inclusiva è nata alle Elementari di Pazzallo nel 2011. La prima esperienza di Scuola media è stata a Losone nel 2015, dove si è quindi già concluso un primo ciclo di 4 anni e dove si è già ripartiti con una seconda inclusiva. Un'ulteriore esperienza è partita a Bellinzona quest'anno.
Tremante, che ad un'esperienza inclusiva lavora da 6 anni, la inquadra come «una risposta pedagogica e didattica ai bisogni educativi speciali di certi allievi. Specialmente nella Scuola media, non possiamo pensare a ragazzi con deficit cognitivi molto importanti e per i quali i contenuti proposti non sarebbero adeguati. Le classi e le sezioni inclusive si possono proporre a molti bambini nella Scuola dell'infanzia, a molti altri nella Scuola elementare, e ad alcuni ma non a tutti nella Scuola media; generalizzando, non risponderemmo ai bisogni specifici e non faremmo un favore in primo luogo ai ragazzi coinvolti. Con questi alunni proponiamo forme di inclusione/integrazione partendo da classi a effettivo ridotto».
Poi il ragionamento torna ad ampliarsi, e ancora con le parole di Paolo Iaquinta: «La parola inclusione non è legata soltanto alla Scuola speciale, ma è un termine che è di tutta la scuola dell'obbligo. Anche nella Media si riflette quindi e si cerca di agire in questi termini inclusivi, attraverso pratiche che vanno sotto il cappello della differenziazione pedagogica: si fa in modo che il maggior numero possibile di ragazzi possa raggiungere traguardi d'apprendimento attraverso percorsi che non sono necessariamente unici».
Un genitore che affronta la scuola media potrebbe pensare che tutti i ragazzi sono omologati, con le stesse competenze e le stesse capacità; «in realtà – considera Iaquinta – il mondo della Scuola media è molto variegato. Anni fa, proprio quando diventavo direttore della Media di Minusio, anche sulla scorta del nuovo Piano di studio della scuola dell'obbligo ticinese erano stati attivati dei progetti di formazione continua affinché i docenti potessero entrare nel nuovo paradigma formativo. Sono stati identificati alcuni “snodi-chiave”, punti sensibili fra i quali appunto quello della differenziazione pedagogica. Si tratta di un tema che unitamente a quello dell'inclusione mi è molto caro, ragione per cui ho insistito molto affinché vi fosse un alto grado di inclusione e di qualità». Misurare la qualità in un un sistema come quello della Scuola media è molto complesso, prosegue, «perché ciò viene fatto sulla transizione verso gli ordini scolastici post-obbligatori e non sempre abbiamo elementi significativi; quelli più interessanti sono legati soprattutto alla transizione verso il Liceo. Sulla scorta di questi elementi e sulla base della volontà di includere gli allievi abbiamo deciso, con un gruppo di docenti, già un anno e mezzo fa, di provare questo cammino».
Riprendendo quanto già sottolineato da Marika Imberti, Iaquinta ricorda uno studio del Centro innovazione e ricerca sui sistemi educativi (Cirse) della Supsi, secondo cui «per un allievo di scuola ordinaria il fatto di essere inserito in una classe inclusiva non pregiudica assolutamente lo sviluppo di competenze. Questo ci ha fatto molta forza, anche per andare a parlare con i genitori, i quali iscrivono i loro figli ad una Scuola media, non ad una Scuola media inclusiva».
Infine, sul tema dell'equità: «Bisogna anche riflettere su una domanda: cosa spinge davvero a determinare l'inserimento di un ragazzino in una classe di scuola ordinaria, in una inclusiva o in una di Scuola speciale? Non è così semplice. Molto dipende dalla Scuola elementare di provenienza, dal docente di sostegno, dalla Direzione stessa. Ma anche: quanto incide la condizione socio-economica o culturale della famiglia? E in questo senso, come si pone la scuola di fronte al compito di supplire, dal punto di vista dello sviluppo delle capacità scolastiche, un contesto sfavorito?».
Secondo il capo della Sezione della pedagogia speciale Mattia Mengoni, «in tema di disabilità, da tempo è cambiato il paradigma: la disabilità non appartiene più alla persona, ma si esprime attraverso il contesto che essa frequenta. Quindi quanto più è accogliente un ambiente, tanto meno emergono determinate caratteristiche intese come difficoltà e tanto più favoriamo lo svolgimento di un'attività». È quindi fondamentale, per Mengoni, «chiedersi cosa può fare il contesto per rendersi più accessibile. E questo vale anche per la scuola. Non è più sufficiente una dimensione integrativa ancorata già alla vecchia Legge del '75, ma si punta su diverse forme di sostegno. Già storicamente e culturalmente il sistema scolastico ticinese è ricco di sostegni e favorisce la dimensione inclusiva. C'è una serie di sostegni che favorisce il tentativo di evitare il distacco dall'ordinario. L'ordine delle Scuole medie è forse quello più complesso dove far partire queste esperienze. Dal 2011 se ne sono fatte di egregie già solo dal profilo quantitativo. Oggi è necessario fare una valutazione anche dal profilo qualitativo, e cioè chiedersi come funzionano queste esperienze e cosa si può fare per migliorarle».
Ma la riflessione di Mattia Mengoni va molto oltre: «Vorrei non dover più parlare di Scuola speciale come ordine a sè stante, ma di una scuola che al suo interno, attraverso una differenziazione dell'intensità dei sostegni, possa accompagnare tutti gli allievi. Quindi, che non ci sia una Scuola speciale all'interno di una Scuola media o di una Scuola elementare o dell'infanzia, ma che in ogni ordine ci sia la possibilità di offrire in maniera adeguata questa intensità, mantenendo tutto sotto lo stesso cappello. A Minusio, come in altre sedi, parliamo già di una realtà, ma vi sono ancora sedi dove si riscontrano delle resistenze».
Un'altra questione è centrale: quella legata al territorio di appartenenza. A molte classi inclusive appartengono ragazzi slegati da quella specifica realtà. «Idealmente, se si parla di inclusione, bisognerebbe partire dal presupposto che l'inclusione si fa nel proprio Comune di domicilio, o almeno nel proprio comprensorio – ammette Mengoni –. Il fatto è che il numero di allievi e la disponibilità delle sedi, per questioni di numeri e di sensibilità storica, non permette ancora di creare dei gruppi con un'attinenza territoriale. Se è vero che l'obiettivo rimane quello di inserire i ragazzi in realtà il più vicine possibile al loro Comune di domicilio, lo è altrettanto che questa rimane una criticità, un tema aperto all'interno non solo della Scuola speciale, ma anche della scuola in generale. Per altro, lo vediamo meno marcato a livello di Scuola media, dove già le sedi spesso raccolgono ragazzi di più Comuni e il contesto complessivo è comunque quello di giovani che cominciano a muoversi maggiormente e conoscono quindi realtà esterne rispetto a quelle del Comune di domicilio».
Più si sarà in grado di organizzare un sistema scolastico che risponde al proprio interno a questi bisogni, «tanto più riusciremo a garantire che ogni Scuola media risponda alle esigenze degli allievi del proprio comprensorio – considera Mattia Mengoni –. È un viaggio un po' lungo, che viene fatto a macchie di leopardo, ma l'obiettivo è che le sedi, con queste esperienze, aumentino, per diminuire le differenze fra domicilio e sede scolastica. Fra i fattori che favoriscono questo percorso vi sono sicuramente le Direzioni scolastiche. Laddove ci sono una Direzione e un corpo docenti che ci credono, le esperienze hanno possibilità di successo maggiori. Sto parlando del concetto di “cultura d'istituto”, laddove una Direzione ha la capacità di coinvolgere i docenti in maniera attiva». È lì, rileva il capo Sezione, «che si fa la differenza». Importantissimo, infine, è «pensare all'inclusione come a una misura didattica valutabile e implementabile, e non unicamente come una questione ideologica».