Musicisti e altri artisti indipendenti sono stati fortemente danneggiati dalle chiusure. Una di loro ci spiega come l’ha vissuta e come ha reagito
Quando è arrivata la pandemia e in Ticino hanno cominciato a chiudere tutto, Elisa Netzer stava effettuando la trascrizione per arpa delle Variazioni Goldberg di Bach, «non proprio un lavoro facile, ma si trattava di un concerto davvero molto importante. Concerto che ovviamente è subito saltato». Con esso sono ‘saltate’, prevedibilmente, anche le molte ore già trascorse sugli spartiti e tra le corde, anche se la concertista classica e folk – vincitrice di numerosi concorsi, ospite di orchestre nazionali e internazionali quali Osi e Tonhalle, docente, autrice di un album per l’etichetta Naxos, tra i presentatori di ‘Paganini’ sulla Rsi – lì per lì non si era scomposta più di tanto: «Facendo questo mestiere si è abituati a una certa precarietà, e poi all’inizio pensavamo che le cancellazioni sarebbero state questione di poche settimane. Quando ho iniziato a capire che non ne saremmo usciti presto, vedendo saltare date in cartellone per eventi a molti mesi di distanza, ecco, lì ho cominciato a impallidire».
Superato lo smarrimento, è arrivato il momento di tentare vie alternative, come le esibizioni in diretta web: «Chi vive di musica sa che deve ‘cavarsela’, cercare una nuova strada come acqua tra le rocce. Ma è chiaro che in certe situazioni ci si sente la terra mancare sotto i piedi, e le difficoltà finanziarie non hanno certo aiutato». Le indennità perdita di guadagno, infatti, sono risultate particolarmente impervie alla categoria. «Durante la prima ondata», spiega Netzer, «i pagamenti sono arrivati in modo abbastanza semplice, anche se erano misurati sul reddito ottenuto due anni prima: cifre molto più contenute rispetto a quanto prevedevo per il 2020, l’anno che per me avrebbe dovuto essere il più intenso fino ad allora». Successivamente «è diventato sempre più difficile affrontare la burocrazia. Da ottobre del 2020, poi, i rimborsi sono stati limitati ai concerti già programmati e in seguito cancellati: ma a quel punto quasi tutti avevano già smesso di organizzare eventi, perché si era capito da tempo che la situazione sarebbe rimasta incerta chissà quanto a lungo». Risultato: tanti saluti agli indennizzi. «Ci siamo trovati a dover affrontare una situazione disastrosa; e non lo dico tanto per me che ho 31 anni e non ho figli, ma per chi magari ha già una famiglia o una situazione economica particolarmente fragile».
Molti suoi colleghi, in effetti, «si sono fatti prendere dallo sconforto» e hanno cercato un altro lavoro, che si trattasse di impieghi amministrativi o alle casse di un supermercato. Il problema è che quella rischia di essere una sconfitta definitiva: «Per quanto sia diffusa la convinzione che il nostro non sia un vero lavoro, posso assicurare che non si può accantonare e poi riprendere in mano uno strumento dall’oggi al domani. Il nostro è un mestiere che richiede esercizio e studio a tempo pieno».
È stato in questi anni che Netzer, come molti altri, si è resa conto «dell’importanza di una rete di sicurezza, della necessità di fare gruppo per ottenere tutele sociali anche solo vagamente paragonabili a quanto viene riconosciuto ad altre professioni. Questa è una cosa della quale molti di noi non si sono curati per molto tempo, prima del Covid, ma la pandemia ci ha aperto gli occhi: non a caso è triplicato il numero di affiliazioni a Sonart», l’associazione professionale dei musicisti indipendenti.
Ora tutti attendono che si riparta, «anche se sarà difficile tornare a pieno regime prima del 2023: la gente ha voglia di tornare a uscire, a divertirsi, ma il nostro è un lavoro che vive di pianificazione. Da quando cadono le limitazioni a quando si ricomincia a lavorare possono passare mesi, se non anni». Nell’attesa e con l’augurio di tempi più musicali, salutiamo Netzer chiedendole quale possa essere la colonna sonora ideale per questo biennio dominato dal coronavirus. «Quella di Shining», risponde subito ridendoci su. Poi però ci pensa un attimo e si corregge: «Preferisco pensare alla musica che spero accompagnerà la ripresa di tutto il settore. Ci immagino come dei gagliardi Rocky Balboa sulle note di Eye of the tiger, pronti a vendere cara la pelle sperando di vincere il match».
«L’accesso agli aiuti previsti dalla Confederazione è stato limitato da diversi fattori: oltre agli intoppi di natura burocratica, occorre ricordare che fino a due anni fa molti musicisti ticinesi non avevano mai pensato – vuoi per cultura, vuoi per i guadagni esigui realizzati nel settore – di acquisire lo statuto di indipendenti. Pochi, dunque, hanno poi potuto fare richiesta d’aiuto». A spiegarci la situazione è Fabio Pinto, musicista di formazione jazz, chitarra e voce del trio Monte Mai e rappresentante di Sonart per la Svizzera italiana. L’associazione mira a tutelare gli interessi degli indipendenti nel settore della creazione musicale, ma «in Ticino dobbiamo recuperare un ritardo strutturale rispetto al resto della Svizzera, dovuto alla mancanza di luoghi d’aggregazione autonoma e di una riflessione sulla valorizzazione della cultura indipendente».
Ad affrontare il problema potrebbe contribuire la creazione, a maggio 2020, di un’antenna ticinese di Sonart: «Da allora abbiamo offerto supporto per orientarsi nella giungla degli aiuti, passando da 20 a 70 iscritti – un buon inizio, anche se non possiamo ovviamente parlare di boom – e avviando un nuovo dialogo con le istituzioni cantonali, il cui sostegno è stato spesso traballante». Un obiettivo perseguito anche grazie alla collaborazione con analoghe associazioni di categoria, ad esempio nel campo del teatro.
A livello nazionale, spiega Pinto, Sonart si batte «per il prolungamento delle misure di aiuto previste per il periodo Covid – in attesa che le attività artistiche riprendano davvero a pieno regime –, ma anche per migliorare la nostra sicurezza sociale, ottenere una forma di salario minimo, fare rete e adottare a livello nazionale quelle che si sono rivelate le migliori pratiche in questo o quel cantone».
Quanto al cambio di prospettiva dovuto alla pandemia, Pinto conferma: «Certo, non si può dire che in questo caso il mal comune sia stato mezzo gaudio. Ma se non altro le difficoltà hanno stimolato gli artisti a fare gruppo, a superare le divisioni per ottenere insieme maggiore riconoscimento e diritti».
Il 25 febbraio del 2020 arrivava la notizia del primo contagio in Svizzera, proprio in Ticino. Questa è una serie dedicata a categorie di persone spesso lontane dai media e al loro destino dopo due anni di pandemia. Le altre puntate sono qui