Continua il processo a carico dei vertici della casa anziani di Sementina. Nel pomeriggio l’attenzione si è focalizzata sulla libertà concessa agli ospiti
«Riteniamo di non aver contravvenuto alle direttive». Questa la posizione dei vertici della casa anziani di Sementina, da questa mattina alla sbarra per rispondere della gestione della prima ondata pandemica quando nella struttura di proprietà della Città di Bellinzona 39 ospiti su 80 sono risultati positivi al Covid e 22 sono deceduti. Nell’aula del Tribunale penale federale di Bellinzona, la giudice Orsetta Bernasconi Matti ha proseguito con le domande relative ai fatti contestati ai tre imputati: il direttore del Settore anziani comunale Silvano Morisoli, patrocinato dall’avvocato Luigi Mattei, la direttrice sanitaria (avvocato Mario Postizzi) e l’allora capocure della struttura (avvocato Edy Salmina). La pubblica accusa è sostenuta dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti assistita dal procuratore generale Andrea Pagani.
Dopo che in mattinata l’attenzione si è focalizzata sulla possibilità per alcuni ospiti, nonostante i sintomi e il conseguente rischio di diffusione del Covid, di continuare a muoversi all’interno della struttura violando così secondo l’accusa le disposizioni superiori, nel pomeriggio la giudice si è concentrata sui pasti che più ospiti hanno continuato a consumare, nonostante l’emergere dei primi casi positivi all’interno della struttura, prima nella sala comune al pianterreno e poi in quelle sui piani. Morisoli ha affermato che «non abbiamo mai pensato di definire le distanze con il metro. Abbiamo comunque raccomandato di mantenere un certo distanziamento, con la precisa indicazione che la disposizione degli ospiti ai tavoli fosse a scacchiera». Il direttore ha poi detto che inizialmente né la Confederazione né il Cantone chiarivano l’esatta distanza da mantenere. Un punto contestato dal procuratore generale Pagani: per il Pg questo è dimostrato da una e-mail del 26 febbraio scritta dalla direttrice sanitaria a Morisoli in cui si specificava: contatti tra i pazienti mantenendo almeno due metri di distanza e per un massimo di 15 minuti. Secondo la capostruttura il distanziamento durante i pranzi era comunque garantito.
Si è poi passati alle attività socializzanti, effettuate sui singoli piani, dal 18 marzo al 6 aprile, nonostante il divieto imposto dal medico cantonale il 9 marzo. Secondo la pubblica accusa sono stati organizzati, con il benestare dei tre imputati, incontri di lettura, tombole, momenti di canto, atelier creativi e passeggiate nel parco. «Quelle che abbiamo proposto erano attività limitate ai piani nell’intento di far vivere la giornata ai nostri ospiti». Fino a prima della pandemia, ha continuato Morisoli, «la nostra casa anziani era piena di vita, e il fatto di rinchiudere l’ospite e deprivarlo dell’affetto dei famigliari è stato sicuramente vissuto molto male dagli stessi residenti, che sono esseri umani». «Preciso – ha aggiunto la direttrice sanitaria – che erano attività di tipo terapeutico per far sentire alle persone un certo calore umano». La giudice ha quindi chiesto se c’era la consapevolezza che in questo modo si stava trasgredendo. «Per noi non si trattava di attività socializzati, ma di attività ordinarie sociosanitarie», ha ribadito Morisoli, sottolineando che solo con la direttiva del 29 maggio 2020 il medico cantonale ha fatto un preciso distinguo tra i diversi tipi di attività. «E il canto e la tombola?», ha quindi chiesto il procuratore generale Pagani. «Non ho mai visto nessuno cantare, altrimenti sarei intervenuta – ha risposto la capostruttura –. Non tutti i giorni ero presente per verificare le attività, ma quando c’ero ho constatato che la distanza sociale era rispettata». «Ho valutato come cosa buona il proseguimento delle attività per i pazienti confrontati con quella difficile situazione – ha dal canto suo affermato la direttrice sanitaria –. Non ho però avuto voce in capitolo sul tipo di attività da proporre e sul modo di organizzarle».
Sul fatto che di fronte a più ospiti con sintomi non sia stato avvisato il medico di famiglia, gli imputati hanno sostenuto che la sintomatologia poteva correlarsi a malattie pregresse. «Ma durante le riunioni in cui si discuteva dei sintomi dei pazienti, non bisognava essere un po’ più puntuali? Non bisognava essere più attenti ai sintomi, pensare che un semplice mal di gola poteva essere Covid e che quindi poteva esserci il rischio di un importante contagio?», ha chiesto la giudice. E ancora: «Nel dubbio non era meglio agire subito con un tampone?». «Fino al 20 marzo il materiale per i tamponi non era di facile reperibilità. Li ricevevamo in maniera centellinata», ha risposto la direttrice sanitaria. Anche Morisoli ha rimarcato che inizialmente il medico cantonale diceva di riservare i tamponi ai casi più gravi.