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L’importanza dei fondi Ue per la ricerca all’Irb di Bellinzona

Secondo Davide Robbiani, senza accordo quadro vi è il rischio di 'ricevere meno finanziamenti per la ricerca e di perdere giovani talenti'

Davide Robbiani, direttore dell'Irb (Ti-Press)
24 giugno 2021
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Le incertezze generate dall’interruzione delle trattative da parte della Svizzera con l’Unione europea (Ue) in merito all’accordo quadro «di certo non giovano». Davide Robbiani, direttore dell’Istituto di ricerca in biomedicina (Irb) di Bellinzona, spiega a ‘laRegione’ i motivi per cui questa decisione potrebbe avere ripercussioni negative sull’intero settore della ricerca svizzero. Le preoccupazioni maggiori riguardano l’aspetto finanziario, ma anche quello del personale altamente qualificato che potrebbe decidere di lasciare o non arrivare in Svizzera. In ogni caso, stando al direttore dell’Irb, sarebbe opportuno che la Confederazione collabori maggiormente anche con Paesi extraeuropei come Stati Uniti o Cina.

Davide Robbiani, anche se il settore della ricerca non era direttamente legato alle trattative con l’Ue sull’accordo quadro, l’interruzione di queste ultime quali conseguenze potrebbe avere per la ricerca accademica elvetica?

Su questo tema ci sono due aspetti importanti: uno legato al finanziamento dei progetti accademici di ricerca, l’altro connesso alla capacità di mantenere o attirare in Svizzera il talento. La ricerca scientifica, già da tempo, si svolge su un piano non nazionale o continentale, ma globale. Questo è vero nel campo della biomedicina, dove siamo attivi all’Irb, ma anche in altri settori della ricerca fondamentale e applicata. In generale, sono quindi importanti le collaborazioni internazionali e quei meccanismi che permettono di finanziarle. Per quanto concerne l’Ue, ci sono a questo scopo programmi di finanziamento competitivo (come ‘Horizon’ e ‘European Research Council’) che, grazie agli accordi ottenuti in passato tra Unione europea e Svizzera, hanno finora permesso ai nostri ricercatori di accedere a queste importanti risorse. Ora, con l’interruzione delle trattative, queste sorgenti di finanziamento potrebbero venire a mancare. C’è chi dice che questo problema è temporaneo, che ci vorrà un anno o due e poi si troveranno accordi. Forse, ma come esserne sicuri?

E per quanto riguarda invece la problematica del talento?

Un’esclusione da programmi europei potrebbe rendere meno interessante per i giovani rimanere in Svizzera e anche più difficile attirare nella Confederazione talenti dall’estero, sia per il periodo di formazione, sia per la carriera universitaria. Questo comporterebbe una perdita di ‘materia grigia’ il cui impatto sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento sarebbero valutabili forse solo sul medio-lungo termine.

Ma l’Irb è dunque a rischio?

Grazie all’alta competitività internazionale dei nostri ricercatori, l’Irb beneficia in modo sostanziale dei finanziamenti europei di ricerca. Questo è il caso per i nostri programmi di ricerca nel campo dell’immunologia e per quelli legati ai tumori. Lo stesso vale per i progetti Covid tuttora in atto e largamente sostenuti da fondi europei. Per fare delle cifre: negli ultimi 10 anni abbiamo ottenuto 15,7 milioni di franchi da finanziamenti europei; solo nel 2020 erano 2,2 milioni, che è simile a quanto otteniamo da progetti del Fondo nazionale svizzero e che corrisponde al 25% delle entrate per progetti di ricerca. Il discorso è simile per lo Ior [l’Istituto oncologico di ricerca di Bellinzona, ndr] e per i ricercatori dell’Usi e della Supsi, dove la qualità dei programmi di ricerca ha finora permesso di attirare importanti fondi europei.


(Foto: Team Aurelio Galfetti/Dati: Irb)

Quindi vi sono solo nubi all’orizzonte per la piazza di ricerca svizzera?

La ‘situazione europea’ non è rosea e speriamo che si possano al più presto trovare soluzioni per rientrare in questi schemi di finanziamento. Ma l’Europa non è tutto. Come dicevo all’inizio, la ricerca non si gioca su un piano continentale ma globale. Quindi, anche a livello istituzionale, sembrerebbe importante puntare su alleanze strategiche ragionando anche al di là dei confini europei. Da parte di noi ricercatori questo già avviene. Per esempio, l’Irb è già in rete con numerosi centri di ricerca di punta negli Stati Uniti, beneficiando addirittura di fondi provenienti dall’ente di ricerca americano Nih, e il nostro network di collaborazioni scientifiche si estende a Paesi extraeuropei. È importante che continui a essere così.

Cosa si aspetta dal futuro?

Noto positivamente come il Fondo nazionale svizzero di ricerca abbia sviluppato già da alcuni anni programmi bilaterali per sostenere collaborazioni scientifiche internazionali, come per esempio con la Cina. Alla luce delle incertezze europee, sarebbe auspicabile poter potenziare ulteriormente questi sforzi ed estenderli ad altri Paesi scientificamente molto forti al di fuori dell’Europa. Penso alla Gran Bretagna post-Brexit, a Israele e agli Stati Uniti. Mi pare che i temi della ricerca e dell’innovazione siano stati sollevati anche durante il recente summit con il presidente statunitense Joe Biden a Ginevra ed è indubbio che gli Usa siano e continueranno a essere trainanti, soprattutto nelle ‘life sciences’, le scienze della vita.