Bellinzonese

Le infermiere rincarano la dose: ‘Costrette a lavorare così’

Ospedale San Giovanni di Bellinzona, dopo le spiegazioni dell'oncologo Cavalli emergono altri dettagli sulla preparazione degli anti-tumorali

Ti-Press
7 febbraio 2021
|

L’intervista raccolta in settimana dalla ‘Regione’ interpellando l’oncologo Franco Cavalli permette di aggiungere altri dettagli nella ‘vertenza’ che oppone un gruppo di ex infermiere dell’ospedale San Giovanni di Bellinzona all’Ente ospedaliero cantonale. Infermiere che sostengono di essersi ammalate gravemente (tumori e malattie autoimmuni) sia per aver manipolato e preparato senza precauzioni e protezioni nell’arco di diversi anni (nei decenni 70, 80 e 90) farmaci antitumorali da somministrare ai pazienti del reparto di Chirurgia, dove loro lavoravano, sia per aver usato il disinfettante Buraton contenente formaldeide, sostanza nociva se presente in certa misura. 

'Un lavoro sistematico'

Lette le dichiarazioni del dottor Cavalli – che ha creato e diretto l’Oncologia cantonale dal 1977 al 2007 e al quale non risulta che tali farmaci venissero preparati nel reparto di Chirurgia ma esclusivamente in quello dell’Oncologia, sebbene non esclude che qualche medico possa aver agito diversamente e a sua insaputa – il gruppo di infermiere specifica al ‘Caffè’ le dinamiche di lavoro. La portavoce evidenzia che preparare antitumorali non era un’operazione sporadica ma ripetuta nel tempo: «Ogni mese una media di due-tre pazienti. E per ognuno un ciclo di cinque giorni. Vale a dire cinque preparazioni. E per ogni paziente a portarci la ricetta erano i medici di Oncologia. Sarà magari successo qualche volta, non posso escluderlo, che qualche medico di Chirurgia ci abbia fornito la richiesta, ma certamente in accordo con l’Oncologia. I medici dell’epoca vedevano cosa facevamo; e così pure il reparto Oncologia era al corrente che eravamo noi infermiere della Chirurgia a preparare i chemioterapici senza un protocollo che indicasse la procedura». 

'Un armadio in un piccolo locale'

Prosegue il racconto: «Abbiamo fatto quelle preparazioni in un piccolo locale, quello che ospitava noi infermiere. Lo abbiamo fatto sistematicamente durante tutti gli anni 80 e sino al ’92 o ’93 e senza alcuna protezione personale. Senza guanti, manicotti, mascherine». Un’altra ex collega specifica che i farmaci venivano preparati in una sorta di armadio: «Tiravamo fuori una mensola e c’erano anche dei cassetti. E nel mentre c’era un via vai di colleghe che entravano perché avevano bisogno di qualche medicinale, e capitava che magari glieli passavamo noi mentre maneggiavamo i citostatici». La portavoce aggiunge poi che i prodotti necessari alla preparazione dei chemioterapici «erano da noi stesse ritirati nella farmacia dell’ospedale. Qui bisognava compilare un formulario dove si registravano i nostri nomi e il reparto in cui eravamo impiegate». Negli anni a seguire, «la preparazione è stata spostata in Oncologia, con protezioni personali e tanto di cappa di aspirazione; dal 2000 è ritornata in Chirurgia con protezioni di sicurezza personali, ma con solo una piccola cappa di aspirazione, non sufficiente allo scopo. E così siamo rimaste per qualche anno, sino a quando è stato aperto un laboratorio centralizzato in Farmacia». A rafforzare la testimonianza si sono aggiunte alcune altre ex infermiere e un ex capo reparto di Chirurgia. Una ha ribadito che «eseguivamo le prescrizioni che ci davano i medici del reparto Oncologia». Il secondo ha consegnato all’Eoc una dichiarazione scritta spiegando che le infermiere “preparavano e somministravano anche i citostatici che il medico assistente di Oncologia ordinava per alcuni pazienti” operati di tumore. 

Quale nesso causale?

Quanto alla correlazione fra la manipolazione di farmaci antitumorali e l’insorgenza dopo tanti anni di tumori e malattie autoimmuni, ricordiamo, l’Eoc nei mesi scorsi ha presentato alle sei infermiere (una è nel frattempo deceduta) delle conclusioni secondo cui, basandosi sugli studi finora nota, non emerge un nesso causale. Ciò che ribadisce anche il dottor Cavalli sulla base di suoi studi effettuati nei decenni passati. Secondo l’oncologo, come spiegato alla ‘Regione’ in settimana, le protezioni man mano introdotte si sono rese necessarie dopo che in alcuni pazienti guariti dal cancro si erano sviluppati, nel giro di tre/quattro anni, altri tumori correlati ai farmaci assunti prima. Qui – dice Franco Cavalli – il nesso causale è provato, ma non su lungo termine. Ricorda inoltre che il cancro colpisce il 30% della popolazione mondiale, indipendentemente dalla professione svolta e dalle sostanze con cui entra in contatto. Quanto al disinfettante Buraton, sostengono le infermiere, se ne usava in gran quantità nonostante fosse noto che fosse potenzialmente cancerogeno; da un certo punto in avanti non è più stato in dotazione nel reparto.

Per una causa si attende l'Eoc

La ‘vertenza’, ricordiamo, finora è priva di richieste di risarcimento finanziario o di istanze alle autorità civili e penali. A dipendenza delle ulteriori risposte attese nelle prossime settimane dal vertice dell’Ente ospedaliero cantonale, le infermiere decideranno se intentare o meno una causa civile e/o penale.  

Leggi anche: