Condannata in primo grado al carcere a vita, la 41enne contesta di avere indotto il marito ad uccidere l'ex moglie inscenando un suicidio
Sedici anni per lui, carcere a vita per lei: così si era concluso il processo di primo grado a carico della coppia ritenuta colpevole del reato di assassinio in quanto responsabile del delitto di Monte Carasso. Una sentenza che il 50enne imputato (reo confesso) aveva accettato (seppur dopo un primo annuncio di ricorso) a differenza della nuova moglie, una 40enne cittadina russa considerata l'istigatrice del piano diabolico. Proprio lei è comparsa nuovamente alla sbarra questa mattina in occasione del processo bis di fronte alla Corte di appello presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will (giudici a latere Rosa Item e Chiarella Rei-Ferrari) e alla giuria popolare, riunite al fine di mantenere le distanze sociali al Palazzo dei congressi di Lugano.
La scena che si era presentata davanti agli agenti era quella tipica di un suicidio. Invece, quel 19 luglio del 2016, fu l’ex marito ad uccidere l’ex moglie nell'abitazione di quest'ultima. Dopo averla fatta bere, con una manipolazione al collo le provocò un arresto cardiaco, tagliandole poi un avambraccio e causandone di fatto la morte per dissanguamento. L’uomo inscenò il gesto estremo, che poteva risultare giustificabile con i problemi depressivi di cui soffriva la donna. Quel giorno, nello zaino, oltre a una bottiglia di vino il 50enne infilò guanti di lattice, taglierino, stracci e prodotti di pulizia per eliminare ogni traccia della sua presenza sulla scena del crimine. Aperta l'inchiesta nell'estate 2016, la polizia non era stata in grado di rilevare elementi concreti che potessero smentire la tesi del suicidio. Un piano quasi perfetto, che ha retto alle indagini per quasi due anni, se non fosse stato per i rimorsi del 50enne il quale, dopo il consiglio datogli da un prete, aveva finalmente confessato.
Il movente della coppia era quello di evitare di versare gli alimenti pari a 3'400 franchi mensili che nel giugno 2016 il pretore aveva deciso di trattenere dal salario dell’uomo nell'ambito della procedura di divorzio. Soldi da versare che per la 40enne russa - è stato ricostruito in occasione del processo in prima istanza - rappresentavano «l’onere più fastidioso». Cosciente della precaria situazione del marito, non aveva esitato a minacciarlo di fare ritorno in patria per ottenere quello che voleva. «Non ha fatto nulla per risolvere la situazione finanziaria precaria, né riducendo le sue spese superflue né contribuendo con un lavoro – aveva affermato il giudice Amos Pagnamenta prima di pronunciare la sentenza –. Al marito non chiedeva solo di trovare una soluzione ma lo pressava in tutti i modi». La decisione di uccidere era maturata circa un mese dopo l’ordine della Pretura di dedurre gli alimenti dallo stipendio.
La pena più severa inflitta alla 40enne è da attribuire al sincero pentimento mostrato dall'uomo e alla lieve scemata imputabilità ravvisata dalla perizia psichiatrica.
Il dibattimento cominciato questa mattina si svolge in via eccezionale nella Sala B del Palazzo dei Congressi di Lugano al fine di agevolare il rispetto delle distanze sociali. L'accusa è sostenuta dalla procuratrice pubblica Chiara Borelli, mentre l'imputata è patrocinata dall'avvocato Yasar Ravi, il quale, durante il processo di primo grado, si era battuto per il proscioglimento della sua assistita.