Sarebbero almeno cinque le morti collegate allo stabilimento di Bellinzona. Le testimonianze di alcuni famigliari dei dipendenti deceduti.
«Non è vero che non è morto nessuno e queste parole mi feriscono». Donata Meroni di Biasca vuole dire la sua riguardo a quanto affermato dalla Suva venerdì scorso, ovvero che non si registrano casi di decesso a causa del cancro polmonare associato all’amianto presente nel materiale rotabile a cui avevano lavorato in passato alcuni operai delle Officine Ffs di Bellinzona. Ieri però la Suva ha rettificato, spiegando che la risposta fornita in un primo momento era incompleta e si riferiva al programma di prevenzione lanciato nel 2012 e ha quindi aggiunto che “alcuni dipendenti sono stati però colpiti da mesotelioma pleurico causato dall’amianto, che è molto più frequente del cancro ai polmoni e richiede una minore esposizione alla sostanza pericolosa. Non esiste ancora una terapia che porti a una guarigione permanente”. «Mio marito è morto il 26 giugno scorso di mesotelioma, un cancro alla pleura, dovuto all’amianto e la Suva ha riconosciuto la malattia professionale». Sono parole pronunciate con dolore e rabbia dalla moglie di Marco Meroni di Biasca, uno degli operai delle Officine che era stato esposto all’amianto e noto anche per avere gestito per anni l’Azienda vitivinicola Fratelli Meroni assieme al gemello Vincenzo. «Prova ne è il fatto che io ora percepisco la rendita che la Suva mi ha concesso», ha aggiunto. «Purtroppo ora la Suva sta mettendo la testa sotto la sabbia e io voglio combattere, perché con gli appositi esami gli operai che sono stati esposti all’amianto possono ancora salvarsi». Donata racconta le difficoltà vissute accanto al marito che ha combattuto contro la malattia per due anni e mezzo. Una malattia scoperta nel gennaio 2017, quando appunto gli è stato diagnosticato il cancro alla pleura. «Lui aveva 61 anni, una famiglia con due figli e molta voglia di vivere. Insieme avevamo tanti progetti, anche per l’azienda di vini in cui lavorava con passione e a cui voleva dedicarsi anche in futuro».
«Mio marito non fumava nemmeno, l’unica causa è proprio l’esposizione al minerale sul posto di lavoro. Ricordo che da quando aveva iniziato a lavorare alla manutenzione delle carrozze mi diceva: ‘Io morirò di questo’, perché respirava sostanze dannose e non c’erano protezioni adeguate. Ed erano al minimo quaranta persone che facevano questo lavoro». La nostra interlocutrice ci dice di essere certa che suo marito non sia stato l’unico a morire a causa dell’amianto. E infatti entriamo in contatto con un’altra vedova di Biasca che ha perso il marito nel 2007. Anche lui aveva contratto un mesotelioma, e pure lui era un operaio delle Officine che aveva lavorato a contatto con l’amianto. La moglie ci dice che anche nel suo caso la Suva ha riconosciuto la malattia professionale. Da nostre verifiche emerge che nel 2006 un altro ex dipendente di Bellinzona è morto per lo stesso tipo di tumore dovuto al contatto con l’amianto e la Suva ha pagato un’indennità per malattia. Aveva lavorato solo sei mesi alla manutenzione dei vagoni e faceva regolarmente una schermografia. Continuando le ricerche scopriamo che due anni fa è morto per amianto anche un operaio di Chiasso e alcuni anni fa, un altro di Arbedo-Castione.
Donata si sente ferita anche da un altro aspetto. «Si tratta di una questione economica che ritengo ingiusta. Visto che è stata riconosciuta la malattia professionale è stata bloccata la cassa pensioni di mio marito», spiega. Ci dice che il marito Marco ha pagato quarant’anni di cassa pensioni, fino al gennaio 2019 «e ora non vediamo un centesimo dei quasi 800mila franchi da lui pagati. Sono cose che fanno male».