Reportage dal primo centro culturale autonomo in Europa, fondato nel 1980. Dove l’autogestione funziona ed è approvata da Città e popolazione.
Graffiti di tutti i tipi, che cambiano in continuazione «a seconda della creatività dell'artista» ci spiegano. È la prima cosa che si nota, assieme a striscioni perlopiù inerenti a temi d'attualità politica. Un aspetto costantemente in evoluzione, ma anche ancora fedele all'impronta iniziale di fine Ottocento dell'ex fabbrica – dapprima tessile, successivamente manifatturiera –: le iconiche mattonelle rosse, la ciminiera che domina il grande sedime in posizione privilegiata sul lago. È la Rote Fabrik di Zurigo. Non solo il più grande e famoso centro autogestito in Svizzera, ma anche storicamente il primo in Europa. Il bene culturale, protetto dal 1981, da quarant'anni è uno dei punti di riferimento socio-culturali della più grande città del Paese. Tutta un'altra storia, quindi, rispetto all'ex Macello di Lugano. Dopo vent'anni di utilizzo, la sede del Centro sociale autogestito (Csoa) Il Molino è stata sgomberata e demolita durante la notte fra il 29 e il 30 maggio. Un atto travolto fin da subito dalle polemiche e che, fra le altre, pone una domanda fondamentale: come mai nelle altre grandi città svizzere esperienze autogestite fioriscono e in Ticino soccombono?
«Noi ci sentiamo bene accettati, dalla Città e dalla cittadinanza» ci dice subito Kyros Kikos. Si tratta di una delle diciassette persone che lavorano sotto contratto per la ‘Interessengemeinschaft Rote Fabrik‘ (Igrf). La prima differenza con il Molino è qui: la Igrf è una Verein, un'associazione, regolarmente registrata e con una propria struttura che funziona come un collettivo. C'è un'assemblea certo, «l'organo più importante», che conta fra le 300 e le 400 persone. Ma che si riunisce un'unica volta all'anno e che in quest'occasione elegge un Vorstand, una sorta di comitato, «tra sei e nove persone a dipendenza degli anni».
Prima della pandemia si contavano circa 300 eventi all’anno
Quest'ultimo a sua volta sceglie i diciassette membri del gruppo operativo, che a sua volta è suddiviso in altri sottogruppi: persone che si occupano di organizzare tutte le attività che l'Igrf propone. E non stiamo parlando di poca cosa: prima della pandemia, si contavano circa 300 eventi all'anno, quasi uno al giorno fra concerti, esposizioni, rappresentazioni teatrali, conferenze, corsi di vario genere, proiezioni cinematografiche, contest. Un vero e proprio polo culturale supportato dalla Città con circa 2,5 milioni di franchi all'anno.
Nel maggio 1980 partì tutto da ‘Züri brännt’, moti giovanili repressi violentemente dalla polizia
Un idillio costruito a fatica, fra alti e bassi, e nato da uno scontro molto duro. A ricordarcelo è Caterina Blass, membro di comitato dell'Igrf e che nel 1980, casualmente era maggio come per il Molino, c'era già. «Ero giovane, avevo 16-17 anni, ma ricordo perfettamente che c'erano molta rabbia e insoddisfazione nei confronti dell'autorità». Si tratta dell'evento passato alla storia come ‘Züri brännt’, letteralmente ‘Zurigo brucia’. A scatenare la miccia, fu l'investimento pubblico da 61 milioni di franchi per il Teatro dell'Opera. Una somma destinata a un tipo di cultura dalla quale parte dei giovani si sentiva distante e che strideva in modo considerevole con il progetto – rimasto a lungo nel cassetto – di fare un centro culturale e ricreativo proprio della Rote Fabrik, che per ironia della sorte fungeva in quegli anni anche da magazzino per l'Opera. La repressione della manifestazione di circa 200 giovani scontenti e i successivi tafferugli furono replicati nei giorni successivi da moti giovanili in tutta la città, con auto e cassonetti bruciati, vetrine infrante. «La Città se lo ricorda molto bene – sostiene un'artista attiva alla Fabrik e che preferisce restare anonima –, hanno paura che possa ricapitare ed è per questo che oggi abbiamo buoni rapporti».
Gli scontri e le manifestazioni durati sei mesi alla lunga piegarono l'esecutivo guidato da Sigmund Widmer, che oltre a permettere l'apertura di un centro giovanile autogestito nei pressi della Stazione Ffs, che oggi non c'è più, diede luce verde all'utilizzo provvisorio della Rote Fabrik, che diventò definitivo nel 1987, quando gli zurighesi si espressero a larga maggioranza (circa il 70%) a favore dell'istituzione di un centro culturale alternativo sovvenzionato dalla Città. «Quando l'esperienza è iniziata, Zurigo era una città noiosa per i giovani – racconta Kikos –. La Rote Fabrik rappresentava una vera e propria alternativa, con musica underground che non era possibile ascoltare altrove, ad esempio. Con la liberalizzazione culturale degli anni Novanta in molti hanno però iniziato a creare programmi simili al nostro».
Ci sono diciassette persone sotto contratto: tutte percepiscono lo stesso stipendio, indipendentemente dal ruolo e dalla responsabilità
L'Igrf ha quindi non solo contribuito ad arricchire l'odierna vivace vita culturale della città, ma l'ha anche influenzata. Ma non si è istituzionalizzata troppo? «In effetti – replica Blass –, stiamo riflettendo su come modificare il sistema perché da un lato l'organizzazione è diventata complessa e va ripensata e dall'altro ci sono le giovani generazioni che hanno nuove idee. Ci rendiamo conto che questo per il nostro futuro non va più. Certo, si potrebbe continuare così, ma non lo vogliamo. Vorremmo puntare di più sulle specializzazioni, ma anche aprire a una maggior partecipazione anche agli esterni. Quindi l'autogestione è rimasta e rimarrà: abbiamo una struttura, ma non dei leader, le decisioni sono prese collettivamente. E le persone sotto contratto percepiscono tutte lo stesso stipendio, indipendentemente dal ruolo e dalla responsabilità».
I contratti sono stipulati con la Igrf, ci spiega Blass, e la principale forma di finanziamento sono le sovvenzioni. «Il resto deriva dagli introiti dei concerti e delle altre attività, come pure dalle bibite che però sono di competenza del Ziegel. Abbiamo una collaborazione con loro: possono vendere l'alcol quando noi facciamo le manifestazioni e una percentuale dei guadagni ci viene data». Il Ziegel è il ristorante principale della Rote Fabrik, un collettivo anch'esso come lo sono d'altra parte la Shedhalle o il Dock18. La Shedhalle esiste dagli anni Ottanta ed è diventata un importante snodo dell'arte contemporanea svizzera, mentre il Dock18 è più recente (esiste dal 2008) e propone eventi di vario genere legati alle nuove tecnologie. «Purtroppo a causa della pandemia anche le nostre attività si sono quasi interamente fermate per diversi mesi». Un periodo durante il quale è intervenuta la polizia un paio di volte, in quanto sono stati segnalati degli assembramenti di giovani che si ritrovavano ad ascoltare musica e bere. «Abbiamo ripreso da poco, ma organizzare dei concerti di musica rock chiedendo al pubblico di restare seduti e distanti non è evidente...». E sebbene l'attività si sia bloccata, l'intera Rote Fabrik è tappezzata di manifesti di spettacoli, concerti, esposizioni ed eventi vari previsti nelle prossime settimane: c'è fermento.
Come c'è vita anche al ristorante, al bar e negli altri spazi. È mercoledì sera ma il viavai è piuttosto importante. E non mancano le sorprese: fra i vari spazi occupati dalle attività più disparate, c'è anche chi affitta tavole da surf e strumenti per sport acquatici. «Inizialmente non volevo venire qui a lavorare – ci racconta un commesso di mezza età –, mi sembrava un luogo solo per persone di sinistra (ride, ndr). Poi sono stato obbligato dall'Ufficio regionale di collocamento e mi sono trovato molto bene, sono persone aperte e adesso lavoro qui da diversi anni».
«Oggi abbiamo un buon rapporto con la Città di Zurigo: sono stati fatti passi da entrambe le parti»
Riprendiamo il discorso con Blass: «Sì, oggi abbiamo un buon rapporto sia con la Città che con la popolazione. In passato, i primi anni soprattutto, ci sono stati dei problemi con il Municipio. Ma sono stati fatti dei passi da entrambe le parti». E il discorso ricade inevitabilmente su Lugano. «Mi dispiace tanto per quel che è successo con il Molino, ho amici nella Svizzera italiana e ho seguito un po'. Mi ha fatto proprio male, perché Lugano è una bella città per i turisti, ma se dovessi decidere di viverci direi di no. Mancano realtà alternative da frequentare».
Blass è una delle poche persone che incontriamo a sapere cosa sia successo in Ticino. «La maggior parte di noi non credo lo sappia. La mia opinione personale è che trovo scandaloso quanto accaduto: queste persone che frequentavano il Molino esistono. E se il Molino non c'è più non vuol dire che loro non ci siano più. Hanno bisogno di spazi per le loro attività. Che io sappia, a Lugano non c'è un posto che permetta ai giovani di vivere un po' fuori dal sistema. Secondo me la Città di Lugano non ha ancora capito che un posto così è anche una ricchezza per una città e non qualcosa da nascondere».
«Queste persone fanno parte della cittadinanza esattamente come le altre»
«La Città di Zurigo ha capito che la cultura alternativa può essere un buon biglietto da visita – sostiene Kikos –, per questo non abbiamo più problemi con loro». Ogni tanto arriva la polizia «a causa del volume alto della musica, ma questo non è percepito come un grosso problema». Parola d'ordine, insomma, sembrerebbe essere tolleranza. Anche perché in città vi sono realtà ben più anarchiche. «Ci sono gli squatter – ricorda Blass –, anche io lo sono stata a lungo. La Città a un certo punto ha capito che si deve collaborare con questo tipo di persone, perché fanno parte della cittadinanza esattamente come gli altri. Ma mi rendo conto che sono punti di vista. C'è chi vive queste realtà come un'offesa alla borghesia».
Con il Molino, contatti recenti non ce n'erano, se non magari privatamente di alcuni membri. Ciononostante, forti di un'esperienza quarantennale di successo, gli autonomi zurighesi da noi sollecitati qualche consiglio per gli autogestiti ticinesi lo hanno: «Paragonati con il Molino noi siamo vecchi, forse anche troppo ‘moderati’. Però il dialogo è importante. E bisogna avere un progetto. Poi si deve capire se è un progetto davvero aperto a tutti, allora è importante che la popolazione si senta coinvolta affinché lo sostenga, altrimenti diventa un progetto che riguarda solo un gruppo di persone».
Sulla questione abbiamo interpellato anche le istituzioni zurighesi, in particolare la divisione Affari culturali del Dicastero della sindaca Corinne Mauch, responsabile dei centri culturali cittadini. E se sul caso luganese preferiscono non esprimersi non conoscendo i dettagli, ci confermano che «anche la città di Zurigo conosce l'occupazione abusiva, ad esempio nel quartiere di Koch». Il sedime abbandonato, che la Città ha acquistato per farne appartamenti a pigione moderata entro il 2025, da una decina di anni è occupato da degli squatter e verrà sgomberato. «La città sta cercando di discutere e scambiare idee con questi gruppi, cosa che di recente ha funzionato bene». Si è quindi trovato una sorta di compromesso: «La nostra politica è che gli sgomberi sono effettuati solo se il proprietario presenta una denuncia penale e se c'è un permesso di demolizione o costruzione, se è previsto un nuovo uso o se c'è un rischio per la sicurezza delle persone o degli edifici adiacenti».
E malgrado un passato tumultuoso, con la Igrf i rapporti oggi sono cordiali. «Il centro culturale Rote Fabrik è uno dei più grandi centri culturali multidisciplinari in Europa con un ampio programma culturale e, in quanto tale, contribuisce alla diversità dell'offerta culturale di Zurigo – ci dicono dalla Città –. Il funzionamento e il sostegno comunale della Rote Fabrik come centro culturale alternativo sono stati decisi democraticamente in un referendum nel 1987. In passato ci sono state lamentele isolate, come per altre istituzioni culturali nella città di Zurigo, ad esempio in relazione al rumore. Ma oggi con tutti i collettivi della Rote Fabrik funziona tutto bene». Un'esperienza nei rapporti con realtà autogestite che forse potrebbe essere preziosa anche per Lugano.
Essere una città aperta, innovativa, sperimentale, dove i giovani desiderano vivere, significa anche investire nelle realtà dei centri sociali autogestiti, luoghi di produzione culturale alternativa e laboratori di nuove formule di convivenza urbana. Come ha fatto Zurigo con la Rote Fabrik o Berna con la Reithalle. A Lugano invece le ruspe hanno distrutto questa esperienza innescando una serie di proteste di piazza. «È un atto simbolico devastante, che sarà difficile riparare, una vera e propria dichiarazione di guerra al concetto di città aperta. I giovani rifuggono le città sterili e chiuse verso l’altro (che sia uno stile di vita diverso, che sia lo straniero), loro amano sperimentare. È questa linfa giovanile, e non certo il banchiere 50enne, il motore per una città, che vuole essere innovativa. A Lugano invece calano gli abitanti, i giovani se ne vanno, assomiglia sempre più ad una Disney morente, una città in declino», analizza il professor Sandro Cattacin.
Il docente di sociologia all’Università di Ginevra conosce bene la realtà luganese e rimane timidamente ottimista. «La sfida è alta, Lugano dovrà cambiare per crescere, sfruttando la sua posizione centrale tra Milano e Zurigo. Sarebbe utile creare un laboratorio della realtà urbana indipendente ma affiliato ad università e Supsi, sostenuto da Cantone e Comune. Un luogo di ricerca che si contrappone alle visioni ristrette di una certa politica fatta di proclami basati su ideologie e non fatti, dibattiti o ancora cooperazioni », precisa.
Il contesto urbano è per definizione un luogo di conflittualità civilizzata, dove si incrociano diversi modi di essere. A fare la differenza è come una città gestisce le diversità traendo il meglio per tutta la comunità con uno sguardo lungimirante. «I conflitti tra generazioni, tra origini e stili di vita diversi sono l’humus del contesto urbano, certamente generano confronti, ma solo la moltiplicazione delle esperienze porta innovazione sociale. La forza di una città sta nel trovare soluzioni che integrano le varie posizioni, senza puntare su un modello univoco».
L’impatto dei centri sociali autogestiti sulla vita urbana, approfondito dall’esperto, va ben oltre quello che si coglie a prima vista. «Sono luoghi di creatività che producono modi diversi di fare cultura. Accanto a teatri e l’opera abbiamo anche queste realtà alternative che rendono la vita culturale di città come Ginevra o Zurigo più attrattiva», spiega. Ma sono soprattutto dei laboratori sociali che hanno fatto germogliare nuove formule di vita urbana. «Ad esempio, dall’esperienza dell’autogestione a Ginevra è nata la cooperativa abitativa Codha, un importante modello di transizione ecologica urbana, che si contrappone alla speculazione edilizia. Permette spazi accessibili e condivisi a tante famiglie in difficoltà o artisti a inizio carriera. La città fornisce alla cooperativa immobili non più attrattivi che vengono ristrutturati e gestiti in modo solidale ed ecologico». Anche le prime esperienze di riciclaggio sono nate negli anni Ottanta dentro i centri sociali autogestiti. «Non si buttava via nulla, tutto veniva riciclato, anche i vestiti. Si voleva vivere in città in modo ecologico. Questa economia del riciclaggio è figlia di queste realtà».