I lockdown hanno impoverito una delle regioni più ricche d'Europa, ampliando la distanza tra chi ha e chi no. Disoccupati e cassintegrati chiedono aiuto
Como – Sarà anche una delle locomotive d’Europa, ma sempre più persone, in Lombardia, viaggiano in terza classe. Richieste d’aiuto raddoppiate e triplicate a Comuni e associazioni di volontariato, code infinite davanti a mense e luoghi di distribuzione di cibo gratuito, impossibilità a saldare mutui, finanziamenti, affitti.
Basta fare un giro in una mattina qualunque alla mensa Caritas di Casa Nazareth, a Como, per capire che c’è un mondo, sempre più ignorato, dietro alle parole del neo assessore regionale al Welfare, Letizia Moratti, che ha esordito nel suo nuovo ruolo con un molto milanese “acceleriamo la distribuzione dei vaccini alle regioni che contribuiscono di più al Pil”. Tradotto: siamo ricchi, vogliamo saltare la fila.
Forse così ricca la Lombardia non è, se è vero che 300 mila persone hanno fatto fatica a mettere insieme un pranzo di Natale. E le file che preoccupano di più la gente comune sono altre, come quella - lunghissima - davanti al Pane Quotidiano, a Milano, il cui filmato ha fatto il giro del web.
A Casa Nazareth la fila s’ingrossa e si assottiglia a orari ben precisi. I pasti vengono distribuiti alle undici e mezza, ma i più arrivano con un po’ d’anticipo, in modo da essere tra i primi a ricevere il sacchetto. Ci sarebbe posto fino alle 12.30, “ma a quell’ora passa solo chi ha avuto la mattinata impegnata o chi non vuole farsi troppo vedere”, spiega un volontario storico della Caritas comasca, Giampaolo Collu. Conosce tutti, saluta tutti e di quasi ognuno sa da dove arriva e com’è finito qui. Ed è lui a spiegare perché la gente arriva così presto per il pranzo: “è ancora caldo. Oggi ad esempio c’è il risotto, mangiarlo caldo o freddo fa una bella differenza. Stessa cosa quando c’è la bistecca”. Oggi servono, oltre al risotto, insalata con pomodoro e mozzarella, una banana e un plumcake. “Prima venivano tanti immigrati, chi senza lavoro, chi in attesa di documenti o di andare all’estero. Ma d’inverno sono di meno perché qui fa freddo e chi può cerca posti più caldi, eppure il numero di pasti distribuiti è più o meno sempre lo stesso, duecento. Sono aumentati gli italiani, spesso uomini di mezza età spesso con lavori precari messi in ginocchio dalla crisi. O stranieri ormai integrati, in particolare badanti, donne dell’est europeo che, dal marzo scorso, hanno perso lavoro e certezze”, spiega Enrica Lattanzi, della diocesi di Como.
Non è un solo un pasto quel che viene dato a chi passa per chiedere una mano: ci sono aiuti per pagare le bollette. E il “bonus doccia”, che solo dal nome evoca una povertà che in Italia non ti aspetteresti più. “Diamo la possibilità, a chi non può, di farsi una doccia calda. Senzatetto, ovviamente, ma anche tanti anziani che, costretti a rinunciare a qualcosa, smettono di pagare il gas o l’elettricità. Persone che cercano di mantenere all’esterno l’immagine di una vita dignitosa, e che hanno una casa, fanno pure un po’ di spesa, risparmiando su questo. Ed è terribile”.
La Caritas comasca ha concentrato gli sforzi in questa struttura perché ampliando la cucina si potranno presto servire fino a 500 pasti per volta. E, vista la piega attuale, è meglio non farsi trovare impreparati di fronte a un probabile aumento di bisognosi. Inoltre, il giardino ampio permette a chi non ha alternative di mangiare sedendosi con calma sulle panchine. Il refettorio infatti è chiuso da tempo per le regole sul distanziamento sociale. “Ma non intendiamo lasciare indietro nessuno”, precisano i volontari.
A Milano, stessa storia. “Arriva sempre più gente, sempre più italiani - spiega Francesco Chiavarini, addetto stampa Caritas -. Ormai siamo al 50 e 50 con gli stranieri. Una volta era impensabile”. Famiglie con due-tre figli a carico, uomini divorziati, giovani donne schiacciate da un precariato perenne che la crisi ha trasformato in qualcosa di peggio: disoccupazione. Sono tutte storie che potrebbero essere del nostro vicino di casa, come quella di Antonio, custode notturno d’hotel rimasto senza lavoro. Ha una figlia e una serie di piccoli debiti, finanziamenti per il cellulare e piccoli elettrodomestici. Spese che fino a un anno fa ti costringevano magari a tirare un po’ la cinghia, non a presentarsi in parrocchia con il cappello in mano. “Passiamo dai 400 agli 800 euro al mese a chi chiede aiuto. Tutti contributi a fondo perduto. D’altronde chi si trova in difficoltà non può e non deve pensare di fare altri debiti”, spiega Chiavarini. Così ne è uscita Immacolata, 57 anni, cuoca in una mensa scolastica a Baranzate, periferia nord di Milano, con due figli maggiorenni in cerca di occupazione. A marzo scorso, con il primo lockdown, è rimasta a casa. Per due mesi non ha visto un soldo e quando è arrivata la cassa integrazione, a maggio, si è trovata in mano solo 400 euro. A giugno i risparmi erano già finiti e il fondo della Caritas le ha dato un po’ di ossigeno per superare l’estate. Fortunatamente a settembre ha ripreso a lavorare. “Per accontentare tutti, ci hanno ridotto l’orario e quindi guadagno molto meno di prima. Però riesco a cavarmela da sola e sono contenta di sapere che l’aiuto che ho ricevuto ora possa andare a qualcun altro”. Si parla di spiccioli, lontanissimi dai calcoli sul Pil di madame Moratti. A ciascuno la sua Lombardia, a ciascuno la sua fila. Anche questo succede nei vagoni meno fortunati della locomotiva d’Europa.
“La prima volta che sono venuto qui avevo una specie di passamontagna per non farmi riconoscere”. Qui è la mensa della Caritas di Como. E il passamontagna ha lasciato il posto a un cappellino da baseball nero. “All’inizio mi facevo tutte quelle paranoie sulla dignità, la reputazione. Ma la verità è che vengo qui a prendere il pranzo. E va accettata”.
Michele, 52 anni, non nasconde più il viso, né la sua storia. “La mia vita, negli ultimi anni, è stata una palla di neve che rotola e s’ingrossa sempre più. Sembrava andasse tutto bene, poi ho fatto qualche errore, e uno via l’altro, sempre più velocemente, mi sono ritrovato a elemosinare i pasti. Ma chi non sbaglia? Poi c’è chi la paga cara e chi meno. O per niente”.
Lavorava nel settore auto. “Automotive”, dice lui, orgoglioso. “Quando le cose andavano bene giravo per queste stesse strade con macchinoni e belle donne. Anche per questo, i primi tempi che venivo alla Caritas pensavo: e se mi vede qualcuno? Sai quelle situazioni per cui incroci una persona del tuo passato e ti risuona nelle orecchie una voce che dice ‘Ma quello non è il Michele? Guarda che brutta fine che ha fatto’”.
Il viaggio che lo porta da Como a Como è lungo e tortuoso, con due tappe decisive in Thailandia e a Bormio. “Sono nato in un paesino qui vicino, Maslianico. E per anni me la sono spassata tra qui e Milano. Poi una serie di vicissitudini familiari mi hanno complicato la vita. Sono andato in Thailandia a fare l’imprenditore. Non è stato facile, ma per un periodo le cose sono andate bene anche lì. Quando sono rientrato tutto ha iniziato a precipitare. Ho cercato di riposizionarmi nel mondo dell’auto, ma a 50 anni non è facile. E anche quelli che pensavi ti aiutassero ti voltano le spalle”. Risultato: una serie di lavori stagionali. “Non amo piangermi addosso. Mi sono rimboccato le maniche e ho ricominciato cercando lavori stagionali. A Bormio c’era bisogno e sono andato a Bormio. Non guadagnavo più come un tempo, ma riuscivo a cavarmela”.
Il 17 febbraio del 2020 a Codogno c’è il primo caso conclamato di Covid. Due settimane dopo inizia il primo lockdown. Michele viene licenziato il giorno stesso: è il primo marzo. “Non porto rancore, so come funziona, anch’io ho fatto l’imprenditore. Ma da quel momento mi ritrovo a spasso. Ho provato a riciclarmi, ma è praticamente impossibile”.
Prima trova ospitalità da qualche amico e conoscente, “poi non è che puoi restare a casa degli altri all’infinito”. Ma i soldi sono sempre meno. “Una persona fidata mi indirizza alla Caritas. All’inizio mi dico no, non posso essere caduto così in basso. Un giorno ci penso, un altro pure, alla fine mi copro con questa specie di passamontagna, come se dovessi svaligiarla la mensa, non chiedere aiuto. Piano piano mi sono abituato e se posso passo sul tardi, quando c’è meno gente. Vengo a pranzo, mentre a cena mi arrangio diversamente. E certo non è una cucina gourmet, ma almeno si mangia. E lo so che un pacco di pasta costa 70 centesimi e basta un po’ di passata per farsi un piatto decente. Ma se non hai una cucina, un fornello, dove te la prepari la pasta?”
Michele ci tiene a precisare che un posto per dormire ce l’ha, che non sta al freddo. “Però non pago la stanza da novembre. E i soldi che riesco a racimolare mi servono per l’affitto. Per ora va così - dice mostrando il sacchetto penzolante con il pranzo - poi non si sa mai, le cose cambiano. Io lo so bene”.
Emilio Del Bono è uno dei primi sindaci italiani che si trovò ad affrontare l’emergenza Covid. Brescia - la città che governa dal 2013 - fu, insieme a Bergamo, uno dei centri più colpiti dalla prima ondata, quasi un anno fa. Invitato a “Che tempo che fa”, sulla Rai, non le mandò a dire, chiedendo a gran voce che fine avesse fatto il Sistema sanitario nazionale. Tuonò: “Qui non abbiamo nemmeno le bombole d’ossigeno per far respirare i malati”. Fu il richiamo disperato di chi, in prima linea, vedeva troppi tentennamenti nella catena di comando.
Oggi la situazione com’è? Quello sfogo servì a qualcosa?
“Non so se servì nell’immediato. La situazione era davvero caotica. Non c’era un coordinamento. Certo, oggi la situazione è migliorata, devo dirlo, anche grazie al sostegno del governo centrale agli enti locali. Nel 2020 i soldi sono arrivati, e tanti, ma non sappiamo cosa accadrà quest’anno”.
Come ci si attrezza in questi casi?
“I Comuni, di fatto, sono i veri ammortizzatori sociali. Diamo buoni spesa, facciamo assistenza alle famiglie. Il nostro bilancio è di circa 300 milioni, 51 sono destinati ai servizi sociali. Pesano enormemente, ma la verità è che ne servirebbero ancora di più”.
La situazione quanto è stata peggiorata dal coronavirus?
“Tantissimo. Sette anni per l’assistenza sociale spendevamo 41-42 milioni. Ben dieci in meno. Nella provincia di Brescia, un territorio con un milione e 200mila abitanti le famiglie povere erano circa duemila, ora abbiamo superato le seimila. Tra loro ci sono tanti immigrati, ma parliamo - in moltissimi casi - di persone fortemente integrate nel tessuto sociale”.
Qual è l’identikit di chi oggi ha perso il suo reddito?
“Penso in particolare a tutte quelle donne dell’est europeo che lavorano come badanti. Da un giorno all’altro per la paura del Covid non hanno più potuto svolgere il loro lavoro. Nel migliore dei casi le ore sono comunque diminuite drasticamente. E se prima potevi vivere o perlomeno sopravvivere, oggi se non trovi un aiuto fai fatica a tirare avanti”.
Parliamo di persone con un lavoro in nero?
“Non proprio. Parliamo di lavoro grigio. Un’area ancora estesa che include un gran numero di persone. E quello delle badanti è solo un caso tra tanti.”
Come se ne esce? Cosa si dovrà fare d’ora in poi?
“Vaccinarsi, vaccinarsi, vaccinarsi. Solo con una copertura ampia potremo garantire maggior sicurezza e riaprire le attività. E solo riaprendo le attività potremo creare nuovi posto di lavoro, contando anche su investimenti da parte dei privati. Spero davvero che si possa spingere il più possibile con i vaccini”.