Lili Hinstin, direttrice del Locarno Film Festival: ‘è uno dei pochi nel mondo dove si possono percorrere tutte le vie della cinefilia’
Questo è l’anno della settantaduesima edizione – ma per il Locarno Film Festival è anche la prima volta della nuova direttrice artistica, l’opera prima di Lili Hinstin. O meglio, per riprendere quanto da lei scritto nella presentazione del programma, il suo manifesto, perché «le prime scelte vengono prese come ‘profession de foi’, come si dice in francese» ci spiega Hinstin.
Non direi esattamente così: la provocazione fine a se stessa può magari essere divertente, ma non è quello che mi interessa.
Quello che mi interessa è che i film che compongono la selezione ufficiale 2019 – nelle sei sezioni del festival, cinque competitive e una non competitiva, il Fuori concorso – riescano a disegnare un panorama del contemporaneo a livello cinematografico. Come comitato di selezione abbiamo visto cinquemila film e ne abbiamo scelti 125. È una grande responsabilità, viste queste proporzioni.
Innanzitutto, in ogni film che presentiamo ci deve essere qualcuno, perché un film è un incontro con una persona. È la cosa più bella e più importante della cultura: incontrare qualcun altro, magari appartenente a un’altra cultura o che parla un’altra lingua, ed entrare in contatto con lui a livello emozionale o intellettuale.
I film che selezioniamo devono essere l’incontro con persone che hanno trovato una maniera personale e intima di dare forma alla realtà della quale volevano parlare.
Queste visioni del mondo non possono essere in contraddizione con certi valori che abbiamo. Ad esempio non vorremmo fare vedere un film misogino, perché siamo coscienti dell’impatto di un film, di quello che trasmette al pubblico. È una questione etica, di valori.
Non direttamente, perché è un criterio che è parte di un processo che avviene spontaneamente e naturalmente. Durante le nostre riunioni ci può capitare di dire che alcuni film non hanno un buon modo di rappresentare le donne, che danno una brutta immagine delle donne che ne fa un brutto film – e che escludiamo.
Per me, la sorpresa: in quanto spettatrice, non mi interessano i film che già all’inizio capisci come vanno a finire. Non interessano a livello personale, e mi sembra che non rientrino neanche nella storia del festival di Locarno che ha sempre saputo sorprendere, ha sempre saputo scovare cose nuove.
Per me Locarno è uno dei pochi festival nel mondo dove si possono percorrere tutte le vie della cinefilia.
È come scalare una montagna. In basso troviamo i film che piacciono a tutti – quest’anno, ad esempio, abbiamo ‘Million dollar baby’ di Clint Eastwood con Hilary Swank: come non innamorarsi del cinema attraverso questo film? La sua grande arte narrativa, i suoi attori strepitosi, la sua storia forte… è tutto facile – e la parola “facile” non la vedo per niente in senso negativo.
Ma l’ascesa della montagna continua. Mi viene in mente Francis Ford Coppola, con le sue elaborate messe in scena: e lì capisci la differenza di quello che ti può dare, a livello di emozioni, un piano sequenza unico di 15 minuti rispetto a una scena con 52 inquadrature diverse.
Poi continui a salire, e sulla vetta trovi ad esempio Jean-Marie Straub, registi che magari non sono così accessibili ma che ti possono dare tanto.
Per me tutta la montagna è stupenda, mi piacciono le colline di Hollywood e mi piacciono le asperità del cinema sperimentale… L’obiettivo non è arrivare sulla vetta, ma per arrivarci occorre percorrere tutte le tappe. E – dopo questa lunga metafora ritorno alla domanda – il Locarno Film Festival è uno dei rarissimi posti dove puoi percorrere tutta la montagna, dove puoi trovare tutti i paesaggi. Tranne le cose più commerciali, perché centrale è comunque il cinema come arte: un’arte stupenda, l’arte della rappresentazione attraverso il tempo e lo spazio (via la vita).
Locarno unisce poi futuro, presente e passato: non tutti i festival hanno questa corposa parte sulla storia del cinema, attraverso la retrospettiva e Histoire(s) du cinéma. E qui a Locarno abbiamo un pubblico vario ed enorme, al contrario di quello che succede in altri festival che sono frequentati soprattutto da addetti ai lavori.
C’è molto altro. I due estremi, se vogliamo, sono la Piazza e la sezione Moving Ahead, ma sono sicura che in molti diranno “perché questo film è Fuori concorso e non in Cineasti del presente?” o “perché in Piazza e non in Concorso?”, “perché in Cineasti del presente e non in Moving Ahead?” e così via. Perché una volta che abbiamo visto un film e abbiamo deciso di selezionarlo, c’è il problema di dove collocarlo: a volte è scontato, in quale sezione metterlo; altre la situazione è più ambigua, e questo per me dimostra che in tutta questa diversità c’è un’anima sola, l’anima del festival.
La realtà virtuale la consideriamo come un formato con il quale alcuni registi affrontano le forme espressive del cinema, cioè il punto di vista, il tempo, lo spazio. Io non volevo che ci fossero una sezione o un concorso dedicati alla realtà virtuale, perché a me non interessa partire dal formato: sarebbe come fare una sezione solo per i film in 16 mm, un’altra per chi ha usato l’iPhone e così via. L’importante non è quale formato uno ha utilizzato, ma perché l’ha scelto.
Il progetto ‘Gender bender’ è arrivato dopo: avendo questa infrastruttura per la realtà virtuale mi sembrava interessante presentare qualcosa anche nel caso nessun film in VR avesse passato la selezione, perché chiaramente valutando in base al risultato e non alla tecnica c’era questa possibilità. Poi, come detto, abbiamo due opere in competizione, una nei Pardi di domani e l’altra in Moving Ahead.
Pochi, forse una cinquantina. Del resto, è una cosa che abbiamo annunciato tardi, a febbraio, ci vuole tempo perché sia conosciuta. E le opere in VR non sono tantissime – e ancora di meno sono quelle davvero interessanti: a me non interessa far vedere dieci opere in VR dell’anno, se otto sono bruttissime o non hanno nulla a che fare con l’arte cinematografica.
In realtà si chiama “Premio dell’utopia” – il nome è importante.
Come programmatrice, ammiro numerosi registe e registi, ma ho alcuni idoli nel campo della programmazione, come Freddy Buache a cui dedico questa edizione. E come enrico ghezzi che conosco da molti anni: quando una persone inizia a interessarsi a Straub, a Guy Debord, a Carmelo Bene e altri autori, a un certo punto spunta fuori il nome di ghezzi con interviste, articoli critici. Per me ghezzi è una figura intellettuale molto importante e quando sono andata a lavorare a Roma (come programmatrice dell’Académie de France à Rome, ndr) l’ho cercato, ho cercato di lavorare con lui, ho cercato di coinvolgerlo nella mia programmazione e condividere con il pubblico di Roma la sua sapienza. Perché una delle qualità più importanti ma più sottovalutate del mestiere di programmatore è l’immaginazione – e ghezzi ce l’ha.
Per questo mi sono detta che per questa mia prima edizione sarebbe stato bello dare un premio a enrico ghezzi. Ma il festival aveva già la sua struttura di premi – l’Excellence award, il Vision award, il Leopard club award… – e ghezzi non stava in nessuno di questi premi, perché è un personaggio troppo particolare. Per cui mi sono detta che per un personaggio così unico va creato un premio unico. Ho cercato un nome ed è stato naturale: ghezzi è uno dei pochi ad essere riuscito a portare nel mondo reale un’utopia – e questo per trent’anni, da tanto dura il suo ‘Fuori orario’.
Non lo so. Se un giorno troveremo un’altra persona utopista come enrico, perché no?