laR+ L’intervista

Umberto Orsini, a Castellinaria con tutti gli onori

Tra teatro e cinema, da Ronconi a Visconti, da Rossella Falk a... Jannik Sinner. A Giubiasco per ‘Trifole’, ritira il premio ‘alla carriera’

Umberto Orsini in ‘Trifole’
18 novembre 2024
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Per venire a ritirare il Castello d’Onore di Castellinaria si è preso una pausa da ‘I ragazzi irresistibili’ di Neil Simon, in scena a Milano. Non saranno certo i novant’anni a impedirgli di essere a Giubiasco stasera per accompagnare, fuori concorso, ‘Trifole - Le radici dimenticate’, film di Gabriele Fabbro, alle 20.30 al Mercato Coperto, alla sua presenza e a quella del regista. Il Castello d’oro è da intendersi “quale riconoscimento e ringraziamento a un artista che ha saputo offrire le proprie doti interpretative a opere cinematografiche, teatrali e televisive lasciando tracce di memoria indelebili negli spettatori che hanno avuto l’opportunità di assistervi”. E alle parole di Giancarlo Zappoli, direttore artistico di Castellinaria, Orsini così risponde tramite queste pagine: «Mi fa piacere ricevere un premio che riguarda la mia carriera cinematografica, che è molto altalenante. Da trent’anni mi dedico al teatro e accetto di partecipare solo ai film che mi piacciono, come in questo caso».

Quanto a ‘Trifole’, il grande attore italiano è Igor, il nonno di Dalia (Ydalie Turk), ragazza britannica in cerca di sé stessa, spedita nelle Langhe dalla madre Marta (Margherita Buy) a prendersi cura del nonno affetto da demenza senile, un cercatore di tartufi con cagnolina da tartufo al seguito (Birba, che cagnolina da tartufo lo è anche nella realtà). Con una notifica di sfratto che riguarda non solo la vecchia casa di Igor, ma tutto il suo mondo e pure la terra circostante, la possibile salvezza sta in un tartufo, per una storia che finisce – e dove sennò – nel centro di Alba.

Umberto Orsini, da dove arriva il ‘suo’ nonno Igor?

Ho cercato di assecondare il regista nel ricordo di un nonno al quale voleva fare un omaggio. Ha individuato in me un uomo che gli assomiglia. Si è creata così una sincronia d’intenti molto facile, da parte mia nel dare al personaggio quel tanto di vaghezza della senilità che sta al limite dell’Alzheimer. Mi sono ispirato all’interpretazione di Anthony Hopkins in ‘The Father - Nulla è come sembra’, film nel quale interpreta un vecchio signore affetto da Alzheimer, ma non così folle come spesso si dipingono questi personaggi. Anche in quel caso Hopkins si era fatto tramite di una vaghezza e di una tenerezza, miste a rudezza. Il cinema ha spazi molto limitati dovuti alla sceneggiatura, l’attore non è responsabile del film, in teatro il lavoro è differente, sono abituato a fare i protagonisti e posso affermare un dominio assoluto sulla materia. Il cinema prevede che uno faccia quel che gli viene chiesto di fare.

Possiamo dire che il dominio assoluto viene dal prodursi in proprio, che nel suo caso accade da anni?

Sì, è un controllo di qualità, di scelte di compagni di lavoro. È il caso del mio sodalizio molto forte con Massimo Popolizio, uno dei registi più importanti in Italia, che con me ha fatto ‘Il prezzo di Miller’, ‘Copenaghen’, e questi ‘Ragazzi irresistibili’. Produrre mi permette di selezionare persone che vengono dalla mia scuola, che è quella di Ronconi, Visconti, De Lullo, Castri, un’eccellenza. Le strade sono due: una è quella di poter chiamare attorno a sé le persone, l’altra è quella del cinema, da cui vieni chiamato e dunque ‘subisci’. Ma per ‘Trifole’ mi sono trovato molto bene, tanto la produzione che il regista sono persone squisite, di grandissima qualità e civiltà.

Com’è recitare a novant’anni?

Se parliamo di cinema, è un grande sacrificio anche dal punto di vista fisico: alzarsi alle 6 di mattina, al buio, tornare a casa alle 6 di sera dopo essere stato una giornata intera al freddo, nelle Langhe, di novembre a meno 2 gradi, interni piccoli e non riscaldati. Quand’ero più giovane, il set cinematografico lo frequentavo con molta gioia, era un diversivo molto piacevole rispetto alla mia routine teatrale; ora devo scegliere, anche perché il cinema italiano non ‘coccola’ i propri attori come il teatro, che ti permette di salire d’età nei ruoli, prima fai il figlio poi il padre e infine il nonno. Anzi, in teatro a volte l’età non conta, bastano una parrucca o un gesto per ringiovanire. Il cinema è, giustamente, spietato, indaga sul tuo viso e sul tuo corpo in maniera chirurgica e crudele, ma in certi casi vale la pena di essere indagati così.

E i novant’anni sul palcoscenico?

Faticosi anche lì. L’Italia non ha una capitale del teatro, non c’è Parigi, Londra, New York. Per fare lunghe teniture, specialmente nel caso di una compagnia privata che deve per forza guardare ai numeri, si devono girare piazze, a volte agevoli e a volte meno, spesso tornandovi dopo centinaia di chilometri percorsi per altre repliche, quando la distanza tra le prime due era minima. Non vivo in un Paese con al centro il teatro, questo è certo.

‘Sold out’ è la sua autobiografia, è da lì che arriva questa definizione del suo lavoro: “L’attore è un po’ ladro e un po’ benefattore”. Da quale delle due categorie si sente più rappresentato?

Ho sempre cercato di vedere il mio mestiere come una missione, non dico sociale, ma perlomeno culturale, che andasse oltre l’esibizione. Mi piace scoprire testi e ne ho scoperti tanti, portandone in Italia alcuni che non sarebbero mai arrivati, come ‘Copenhagen’ di Michael Frayn o ‘Besucher’ di Botho Strauss, ‘pescati’ leggendo molto. Averli potuti ‘imporre’ mi ha dato l’aria di essere qualcosa di più di un produttore, quasi un editore.

Questa è la parte del ladro?

Sì, ed è quella che più mi diverte perché mi dà la sensazione di essere utile alla conoscenza. L’utilità è l’aspetto del benefattore, la diretta conseguenza.

Mi permetto di strapparle un ricordo dall’autobiografia, quell’incontro in treno con Orson Welles che dice di averle cambiato la vita…

È accaduto casualmente, mi trovavo sul suo stesso treno da Milano a Roma, il giorno prima del mio esame in accademia. Sapevo chi era e nemmeno mi sono avvicinato. Tanti anni dopo, in un film di Tony Richardson, ‘Il marinaio del Gibilterra’, lui faceva un giorno di lavoro; io ero nel film, mi avvicinai più da collega, gli ricordai quel viaggio del 1955, di cui si rammentò, e mi guardò con molta simpatia.

Anche a Luca Ronconi è riservato uno spazio importante di ‘Sold out’…

Sì, così come a Luchino Visconti. Quanto a Ronconi, il mio rapporto con lui nasce da attore. Luca recitava nella Compagnia dei Giovani, dove io ho debuttato, faceva il ruolo di Peter ne ‘Il diario di Anna Frank’; l’anno successivo la compagnia metteva a disposizione altri due ruoli, di cui uno che lui avrebbe potuto coprire per ragioni fisiche e l’altro meno, per il quale io ero più adatto. Si trattava di ‘D’amore si muore’, la prima commedia di Giuseppe Patroni Griffi, e la Compagnia scritturò me e lasciò libero Ronconi, cosa che lo spinse verso la regia, anche perché di fare l’attore non sembrava avere tanta voglia. Mi ritengo in parte responsabile della nascita del più grande regista teatrale che l’Italia abbia avuto insieme a Strehler.

A Ronconi e Visconti, tra le persone importanti della mia vita, vorrei aggiungere Rossella Falk, con la quale ho lavorato tanto, un’amicizia lunga cinquant’anni. Per me che venivo da Novara e avevo tutte le ‘e’ aperte e chiuse in maniera sbagliata, è stata lei la mia maestra: seduta vicino a me, mentre leggevamo i testi prima di portarli in scena, me le correggeva. Verso la fine della sua vita, quando era ormai malata da un paio d’anni, andai da lei per chiederle di aiutarmi a ripetere una parte, fingendo di non saperla. Relegata com’era sopra una carrozzina, mi pareva di darle un po’ di vita. Uno degli ultimi giorni sbagliai volutamente tutte le ‘e’, solo per sentirmele suggerire da lei.

Prima che platino, per l’Ivan Karamazov televisivo, per Visconti lei si fece biondo…

Sì, sperando mi prendesse per ‘Uno sguardo dal ponte’, ma lui quel giorno non venne a teatro. Quello con Visconti è stato un rapporto fondamentale. Al cinema facevo inizialmente solo parti di bellocci; lui mi prese per ‘La caduta degli dei’ dandomi una statura fisica da prim’attore, dopo anni da ‘attor giovane’, come si dice in gergo. Intuì in me una maniera diversa con cui pormi. In quel film avevo accanto una giovane attrice al tempo sconosciuta, Charlotte Rampling, con la quale ho formato una coppia che, insieme a poche altre cose al cinema, è tra le quattro o cinque volte in cui sono stato bravo. I personaggi cinematografici che sottoscrivo non sono molti: quello de ‘Il mare’, il primo film di Patroni Griffi, incentrato su di me, o il Dumini del ‘Delitto Matteotti’, cui tengo molto.

E la sua prima apparizione al cinema, ‘il giovane’ della ‘Dolce Vita’?

Ero praticamente una comparsa, ma ho vissuto per 18 giorni nello stesso ambiente nel quale Fellini aveva costruito il finale del film, con Laura Betti, Mastroianni. Io sono quello che abbassa la zip di Nadia Gray, che fa una specie di spogliarello. Dissi a Fellini: “È tutto qui?”. Però ho assistito per tre settimane alla nascita di qualcosa che non esisteva sulla carta, a un fenomeno e un capolavoro quale quel film è, vivendo un mondo nel quale la sceneggiatura non contava, perché era tutta nella testa di Fellini e veniva creata al momento.

Chiudiamo con il tennis, che lei ha giocato per tanto tempo insieme a Gassmann e del quale è conoscitore: ci gioca ancora?

Solo fino all’anno scorso, quest’anno devo andarci più cauto. Se si cade, non ci si solleva più facilmente come una volta. Ma continuo a seguirlo.

Si sarebbe mai aspettato un italiano così forte nel tennis?

Ho visto Sinner in occasione della sua prima partita agli Internazionali di Roma, vinse la prima e al secondo turno perse da Tsitsipas in un campo un poco relegato, ma anche in quel caso fece alcuni colpi molto belli. Mi avevano subito colpito la sua freddezza e la sua determinazione. Sono ammirato dalla sua testa tennistica, perché i primi venti tennisti del mondo si assomigliano, hanno tutti più o meno gli stessi colpi, ma lui sa cogliere il momento, superare la crisi senza esternarla. Amo tanto anche Fognini, un genio assoluto, che però è l’emblema dell’italiano che butta via un’occasione per un capriccio. Fognini è magari più umano di quanto sia Sinner, ma in un momento storico nel quale mancano rigore ed educazione, Sinner è un esempio di italiano anomalo.

Ha già previsto un suo addio al teatro? Magari una cosa tipo Roger Federer a Londra?

No, il mio addio al teatro continuo a rimandarlo.


Con Margherita Buy e Ydalie Turk