Si potrebbero considerare normali scaramucce di una campagna presidenziale rimasta a corto di argomenti, il problema è che non lo sono
In questi ultimi giorni di campagna elettorale, mentre Kamala Harris batteva a tappeto gli swing states e parava in grande stile i colpi di una feroce intervista di Fox News, Donald Trump definiva l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 (5 morti diretti o indiretti tra cui un poliziotto, 13 feriti), un “giorno d’amore” in cui “non è stato fatto niente di sbagliato”, chiedeva “generali come quelli di Hitler”, suggeriva “un solo giorno veramente violento” per sconfiggere il crimine una volta per tutte. Dopodiché sospendeva un town hall in Pennsylvania per sparare a tutto volume per 40 minuti la sua playlist di Spotify – degna di un barbecue di pensionamento, da Pavarotti a Ymca – accennando anche qualche passo di danza. I media trovavano Kamala Harris “in forma” e “persuasiva”, Donald Trump spesso “stanco”, “confuso” e “minaccioso”. Eppure intanto il piano inclinato dei sondaggi oscillava lentamente ma chiaramente verso Trump, che al momento è di nuovo, pur di un’incollatura, il favorito per la vittoria. Ancora una volta è come se gli allarmi sulle tendenze eversive di Trump lampeggiassero senza produrre alcun suono, come se la postura impeccabile di Kamala Harris venisse applaudita, sì, ma con una mano sola.
Forse per questo Kamala Harris e Tim Walz hanno cambiato strategia, togliendosi dalla faccia quei sorrisetti da conduttori di Late Show, piantandola di chiamare Trump “weird” e riprendendo a definirlo “pericoloso”, “instabile”, “dispotico”. Perfino Biden si è scosso dal suo silenzio offeso per dirsi molto “preoccupato” di un possibile seguito violento alle elezioni, se il risultato non dovesse essere gradito al “diabolico” tycoon. Il quale, come è nel suo stile, invece di scansarsi indossa come un abito di sartoria coda e forcone che gli cuciono addosso, lasciando intendere che, chissà, forse è davvero in preparazione una grande festa con tanti fuochi d’artificio. Kamala Harris è arrivata a dichiarare che è “preparata” a un tentativo dell’avversario di non riconoscere il risultato delle elezioni, non si è ben capito se solo legalmente o anche militarmente.
Si potrebbero considerare normali scaramucce di una campagna presidenziale rimasta a corto di argomenti, il problema è che non lo sono. Negli ultimi anni la politica americana, pur da sempre avvezza a un certo grado di violenza, è diventata il teatro di aggressioni fisiche frequenti, quasi sistemiche, che media e pubblico sembrano dimenticare alla velocità di brutte scene action viste di sfuggita in Tv: dai due recenti attentati subiti da Donald Trump all’aggressione a martellate subita nel 2022 dal marito della speaker della Camera, Nancy Pelosi. Dal 2019 a oggi si conta almeno una decina di episodi del genere, considerando solo esponenti pubblici di primo piano.
Ma la vera novità è la normalizzazione dell’eventualità della violenza nel dibattito pubblico delle democrazie liberali, e non riguarda soltanto gli States. Possiamo chiamare “disumane” queste esecuzioni al patibolo delle parole, o il desiderio di molti elettori americani di prevalere sull’avversario con qualsiasi mezzo, di annientarlo.
Ma sono molto umane, anzi sono il sottoprodotto industriale di una società costruita su quella che Lacan chiamava la “liberazione del desiderio”, intorno alla quale sono oggi strutturate le retoriche elettorali, in pratica, di tutti i protagonisti della democrazia occidentale. Non basterà certo, eventualmente, fregare la coda al diavolo per liberarsi del problema.