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Ritratti di Truman Capote

Come per Pavese, Levi, Pasolini, è uno di quegli autori il cui destino quasi ne impedisce la lettura. Nasceva il 30 settembre di cent'anni fa

Scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, attore
(Keystone)
28 settembre 2024
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“Era troppo bello, troppo delicato, troppo pallido; i suoi lineamenti erano troppo perfetti e sensibili, e una dolcezza femminea addolciva i grandi occhi neri. I capelli castani, tagliati corti, avevano striature dorate. Un’espressione di stanchezza implorante gli velava il viso sottile, e le sue spalle erano un po’ piegate, come quelle di una persona anziana”. Questo è Joel di Altre voci, altre stanze (nella traduzione di Bruno Tasso), il ragazzo che va alla ricerca del padre richiamato da una lettera del padre stesso. Ha tredici anni e una somiglianza con la figura dello scrittore, che mentre scrive ha solo undici anni di più.

Truman Capote è di quegli autori il cui destino ne condiziona o impedisce, a volte, la lettura. Come accade per Pavese o Primo Levi. Per Pasolini. Il volto si sovrappone alle pagine che stiamo leggendo, come la figura di Audrey Hepburn, per ragioni più innocue, si impadronisce dei tratti della protagonista di Colazione da Tiffany, se per disgrazia abbiamo conosciuto prima il film. Allora bisogna centrarsi, credo, sul rispetto e sulla discrezione. Pensare a ridurre ed eliminare, pure indagando, a non guardare e far di tutto per non sapere. Sfoglio l’album di ritratti che mi propone il web, operazione che stanca presto. Immagini ripetute, l’uomo disfatto per le ragioni che sappiamo e che non sappiamo: “Nel ’61 erano già iniziate altre bevande, molto più micidiali di qualunque bevanda”, scrive Goffredo Parise raccontando due dei suoi incontri con l’autore. Al momento del ritratto di Cartier-Bresson, invece, aveva 23 anni e Other Voices, Other Rooms sarebbe uscito l’anno dopo. Il fotografo francese lo ritrasse, in bianco e nero, appoggiato su una panchina sormontata da una pianta dalle foglie enormi. “Oggi una sua fotografia mi è impossibile guardarla”, confessa Parise.

Lo scatto di Cartier-Bresson può trovarsi, per esempio, nel catalogo di una vecchia mostra di metà degli anni Ottanta: Ignoto a me stesso. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges, a cura di Daniela Palazzoli e all’ombra sardonica di Leonardo Sciascia. Seguiva al ritratto di Capote quello di Mishima. Altro esteta, casualmente. Ma lo scrittore americano figurava nel volume con un secondo ritratto, nella breve sezione conclusiva a colori, con Gide e Kawabata, Virginia Woolf e Simone de Beauvoir. Un primissimo piano che lo rende impossibile da riconoscere. Occhi chiarissimi e ciglia bianche, due unghie listate di nero. E voltando pagina quell’altro esteta, Goffredo Parise. Si incontrarono giovanissimi. Entrambi avevano scritto il primo libro – quello di Parise a 22 anni, Il ragazzo morto e le comete – forse non superato da quelli che seguirono. Si videro in piazza San Marco, “ed egli sfoderò subito, in quel suo birignao (...) una battuta mondana: ‘Andiamo all’Harry’s bar: fanno il più buon latte bollito del mondo’. Avrà avuto venticinque anni, io ventuno”.

Si dice che fondò o scoprì un genere con A sangue freddo, titolo ugualmente o più efficace nell’originale, In Cold Blood. Un terribile pluriomicidio lo richiamò nel villaggio del Kansas, Holcomb, in cui aveva avuto luogo. L’assassinio di una famiglia di quattro persone, per mano di due giovani che furono catturati un mese e mezzo dopo. L’idea era di preparare un articolo sulle ripercussioni della tragedia sulla piccola comunità. La singolarità e l’efferatezza dell’evento, con la probabile nascente ossessione nello scrittore, accompagnato dall’amica scrittrice Harper Lee, fecero che quell’articolo diventasse una serie di altri articoli-reportage che procedevano di pari passo con le indagini. E il lavoro durò sei anni. Dato che era uno scrittore, impiegò le risorse della scrittura letteraria, e ne venne il libro considerato appunto fra i prototipi del New Journalism.

Inizi e fine

Truman Capote sarebbe dunque, semplificando un poco, quattro volte consacrato dai quattro libri più notevoli che, come puntine, ne fissano il ritratto da scegliere secondo le preferenze. Other Voices, Other Rooms (1948) è il libro unico degli scrittori di genio. Breakfast at Tiffany’s (1958) è stato la fama che si aggiunge alla fama, un po’ collateralmente per via della trasposizione cinematografica, di tre anni dopo. In Cold Blood (1965) è l’altro mezzo colpo di genio che forse gli segnò la vita, la faccia, il corpo e l’anima più di quelle micidiali bevande o più di quanto si sospetti. Music for Chameleons (1980, e titolo difficilmente superabile) è la conferma del maestro del giornalismo letterario. Prima del primo libro però, prima del giro con Cartier-Bresson alla scoperta fotografica dell’America, c’era stato il vero battesimo e di quelli possibili solo negli Stati Uniti, vale a dire per via non di romanzo ma di racconto, Miriam, poi di un altro, Shut a final door, che vinse il prestigioso premio O. Henry.

E questi sono gli inizi, ma la fine? Quando Parise scrisse “oggi una sua fotografia mi è impossibile guardarla”, aveva 37 anni. Altre voci, altre stanze, A sangue freddo, Colazione da Tiffany, Musica per Camaleonti mi ripeto cercando di capire se la riduzione estrema sia sufficiente. Si potrebbe togliere il terzo? Provare a sospendere perfino A sangue freddo? Tenersi soltanto il primo e l’ultimo? Cercare, poi, qua e là tra i racconti...

Terapie

A leggere della vita degli scrittori ti confermi che la letteratura è dentro i libri. Solo là, a dispetto a volte della vita stessa. Mentre la letteratura nasce, lo scrittore va morendo, minato da disgrazie di ogni genere passate e presenti, elargitegli dalle circostanze, primissime tra le quali l’esistenza del padre o della madre. Nel suo caso di entrambi. Il padre dal nome che pare inventato, Archulus Persons, e la madre Lillie Mae Faulk, che si sfidarono a chi riuscisse a rendere più detestabile la vita al figlio. Truman trovò quattro terapie per il suo male. La scrittura e l’alcol, le droghe e la mondanità. Una soltanto poteva salvarlo, la prima, ma il cocktail lo tentò troppe volte. La mondanità l’uccise prima dell’alcol e delle droghe? Puniva sé stesso di qualcosa? Di qualcosa che avevano commesso altri? E noi chi potremmo punire, idealmente? Ava Gardner, Humphrey Bogart, che non gli dicevano: va a scrivere! O va a dormire, almeno. Il padre di Kafka non è nulla rispetto a tanti altri padri e tante altre madri letterari. Capote ebbe due genitori-muse di questo genere. Inizio della vita terribile e fine desolante, e visse solo sessant’anni. Forse dovremmo restringere la sua felicità ai venticinque anni centrali della vita. Forse, più probabilmente, ai momenti in cui scriveva.

Eppure nel brano più lirico del romanzo d’esordio compare una madre, quella di Joel, che muore nelle prime pagine. La madre che non è più nella vita di Truman – azzardando il confronto opera-vita – nella storia muore molto dolcemente: “... sua madre diceva che il motivo era bello. E quando giungevano a casa lei lo canticchiava, ma aveva freddo e andava a letto, e poi veniva il dottore, e veniva tutti i giorni per un mese, ma lei aveva sempre freddo, e c’era zia Ellen che continuava a sorridere, e il dottore continuava a sorridere, e i mandarini si raggrinzivano nella ghiacciaia; e quando tutto era finito lui andava con zia Ellen a vivere in una casa buia, vicino a Pontchartrain”. Così accadde, più o meno, anche nella sua vita.

Che può fare allora chi legge, per il rispetto accennato?

Scegliere quali libri leggere e prenderli già tutti. Oppure solo il Meridiano, così bene accompagnato da studi, cronologia, note. Procurarsi una riproduzione del ritratto di Cartier-Bresson e chiuderla in un cassetto, da tirar fuori e appendere durante le letture. Quello che sta per anni alle pareti, arriva il momento che non lo vedi più. Le scelte sono tutte valide e le combinazioni inesauribili (ha scritto tanti altri libri). Non escludono le sceneggiature, le interviste. O le escludono. Quanto alle lettere... le lettere meglio di no.

Senza la virgola

E sempre ritornare al primo romanzo. Chi legge si cala in un mondo appena credibile, magico. Spaesato e ondulante. Febbricitante e più che precario. E verso il finale, fiabesco con ventate di spettrale. La parte meno evanescente è quella sostenuta dalla vitalissima e capricciosa Idabel e dal suo cane Henry, che sono se non altro all’altezza, letteralmente, del piccolo Joel. Era partito per il battesimo alla vita adulta, ignorandolo, e si ritrova fra adulti menomati o violentati o acerbi. Avrebbe potuto addirittura fermarsi qui, ad Altre voci, altre stanze – al quale Garzanti ha deciso di togliere la virgola, non si sa perché, cambiando tutto – come fece l’amica d’infanzia Harper Lee, ritratta in Idabel, la quale non scrisse che Il buio oltre la siepe (e l’inedito che si decise di editare postumo alcuni anni fa). A sangue freddo, con tutta la sua novità, è il grande reportage che avrebbero potuto scrivere, in quegli anni, una decina di altri americani. Altre voci non l’avrebbe potuto scrivere nemmeno Capote in un altro momento. I libri in cui anche i difetti non sono difetti – per esempio l’accelerazione della seconda parte, in cui tutto inizia a turbinare oniricamente, di colpo – e che puoi scrivere a vent’anni.

Verso i tre quarti della storia l’eccentrico e ambiguo Randolph, ovviamente esteta, prefigura o sogna la propria morte raccontandola a Joel. E noi pensiamo a quell’altra morte, il 25 agosto di quarant’anni fa (a quella della madre, uguale, trent’anni prima), raccontata nelle cronache con un breve elenco di farmaci che copio accuratamente: Valium, Codeina, Dilantim, Tylenol. Così si augura Randolph: “In questa stanza non c’è né giorno né notte; le stagioni sono tutte uguali, e gli anni; quando morirò, se non sono già morto, ch’io muoia ebbro e ripiegato come nel ventre di mia madre, nel caldo sangue dell’oscurità. Non sarebbe un finale eroico per chi, nel profondo della sua stramaledetta anima, cercava una vita chiara, dolce e semplice?”.

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