Risale a tre anni fa la prima segnalazione presentata in Curia dal ragazzo che con la sua successiva denuncia in Procura ha portato all'arresto del prete
Già tre anni fa, ovvero nel 2021, il giovane che ha scoperchiato l’omertoso fardello degli ultimi abusi sessuali, affiorati nella Diocesi di Lugano, e che vede accusato, in quest’ultimo caso don Rolando Leo, in carcere dal 7 agosto, aveva segnalato al vescovo Lazzeri i comportamenti inopportuni e libidinosi del responsabile dell’Ufficio istruzione religiosa scolastica (di competenza della Curia), nonché docente, assistente spirituale della Pastorale giovanile diocesana e cappellano del Collegio Papio di Ascona.
Monsignor Valerio, dunque, come confermatoci da fonte degna, già sapeva che il sacerdote aveva approcciato fisicamente, non solo il ventenne che si era confidato con lui, ma quantomeno, erano le sue fondate preoccupazioni, anche un minorenne. In via Borghetto 6, quindi, il ‘caso don Leo’ era già entrato allora, prima della denuncia presentata alla Procura a inizio aprile 2024, dallo stesso ragazzo, dopo la decisione, ancora più sofferta, di riaprirsi all’amministratore apostolico Alain de Raemy lo scorso febbraio, in seguito alle dimissioni di Lazzeri nell’ottobre 2022.
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Monsignor Alain de Raemy
È stato proprio questo ulteriore malessere, il timore da parte del denunciante che don Leo potesse approfittare di altre situazioni di estrema fragilità – che sono ora al vaglio del Ministero pubblico in modo più esteso e che toccherebbero anche altri casi – a riportare al vescovo, oggi emerito, quanto da lui subìto in circa cinque anni e quanto da lui, soprattutto, temuto.
Monsignor Lazzeri – sempre stando a nostre informazioni verificate – espresse la volontà di affrontare il ‘problema’, disse della sua intenzione di parlare con il cappellano, ma la sua presa a carico si limitò a una telefonata serale al giovane per fargli sapere che si era confrontato con don Leo e che, ammettendo i fatti, il sacerdote si era scusato.
Da parte sua, il vescovo aveva però promesso un intervento più incisivo, anche attraverso l’imposizione al prete di un percorso di assistenza psicologica (sempre che poi sia stato effettivamente fatto) così da indurlo a riflettere su quanto compiuto, quegli atti che lo stesso don Leo giustificava come semplici massaggi rilassanti, ma che invece arrivavano sempre e comunque a invadere, in modo ingiustificato e criticabile, la soglia, che avrebbe dovuto restare invalicabile, delle parti più intime.
Un atteggiamento sconsiderato, reso più grave dalla situazione di difficoltà emotiva vissuta in quel periodo dal giovane, dal suo riconoscere nel prete un porto sicuro e un’autorità credibile su cui fare affidamento. Una fiducia, diversamente, tradita nel modo più infimo, approfittandone cioè per suo esclusivo piacere.
Il ragazzo che ha avuto il coraggio e la forza non indifferente di denunciare, da quel giorno con Lazzeri, da quanto ci risulta, non ha più saputo nulla; nessuno, in Curia, si è degnato di tenerlo informato, anzi in questi ultimi tre anni ha dovuto assistere a una sovraesposizione di don Leo, occupato con sempre maggiore assiduità, per decisione della stessa Curia, in vari contesti giovanili. Una situazione evidentemente inaccettabile anche per il giovane stesso, tanto, ci è dato ancora di sapere, da imporsi di non partecipare a incontri o viaggi comuni per non incontrare l’assistente spirituale.
Quella ‘confessione’ non fu, quindi, trasmessa da Lazzeri ai canali preposti, fra cui la Commissione ticinese di esperti in caso di abusi sessuali in ambito ecclesiale, così come don Leo non è mai stato in alcun modo sollevato dai suoi incarichi, peraltro anche dopo l’iter avviato da monsignor de Raemy nel febbraio scorso e fino al fermo del presbitero di agosto in quanto accusato, lo ricordiamo, di coazione sessuale, pornografia e atti sessuali con fanciulli, persone incapaci di discernimento o inette a resistere.
Un mancato stop e la mancata attuazione di misure nei confronti del presbitero decisi – come spiegato dalla Curia nell’avvio dell’inchiesta – per “non interferire nell’accertamento della verità e rischiare l’inquinamento delle prove”. Una non-risposta come quella attuata da monsignor Lazzeri nei confronti dei tentativi di contatto de ‘laRegione’, scegliendo così, ancora una volta, il silenzio.