Ci si affida alla cultura: aprono librerie e si organizzano spettacoli nei sottoscala. E poi le storie di chi arriva a combattere dall’estero
La libreria Sens su viale Khreshatyk, accanto agli uffici del Comune di Kiev, ha aperto qualche mese fa. Dicono sia la libreria più grande d’Ucraina. Forse non lo è, ma è singolare che in un Paese in guerra da più di due anni, ci sia stato un ritorno alla vita e alla cultura in quasi tutte le grandi città.
Non sono solo le vecchie attività a riaprire, ma ne spuntano ovunque di nuove. Anche nelle città ancora oggi costantemente sotto minaccia, come Kharkiv. Qualcuno la definisce resilienza, la capacità di ognuno di noi di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. È successo ai nostri nonni e alle generazioni precedenti che hanno vissuto non una, ma due Guerre Mondiali. Succede anche adesso. Anche lì si cercava di continuare a fare una vita quasi normale, interrotta spesso dagli allarmi aerei e dalla corsa verso i rifugi. Ce lo ricordano i romanzi e i film che raccontano quel periodo, ce lo rammentano le testimonianze di chi ancora è vivo. Resilienza. Una parola che oggi andrebbe scolpita su monumenti, vie e piazze di tutta l’Ucraina.
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Prove di balletto a Kharkiv
“Questo libro è un libro di poesie molto venduto. È di Maxim Kryvtsov che è morto poco tempo fa, lo scorso sette di gennaio, in battaglia. Il libro era appena uscito. E lui adesso non c’è più”, dice Sophia, diciannove anni. Sono molti gli intellettuali e gli artisti andati a combattere. Diversi di loro hanno pagato con la vita. “È un nostro dovere parlare di loro, leggerli, comprare i loro libri, perché così rimangono vivi e così li dobbiamo ricordare”. Questo luogo nel centro della città, nella capitale, che ancora vende libri è importante perché ricorda alle persone la loro cultura e la cultura è importante per un Paese per rimanere in vita. È un paradosso, ma più la morte diventa presente nella società, più la vita diventa preziosa e viene esaltata. Non è la Kiev anteguerra, certamente, ma la ricorda. Bar, negozi di vestiti, ristoranti, gelaterie. Le persone a passeggio nei parchi.
Così succede la stessa cosa a Kharkiv, dove un missile russo proveniente dall’altra parte del confine, dalla confinante regione di Belgorod, a soli 35 chilometri di distanza, impiega meno di un minuto per colpire la città. La giornata internazionale della danza è stata celebrata anche a Kharkiv. In via del tutto eccezionale, al Palazzo dell’Opera, si è svolto uno spettacolo di balletto aperto al pubblico. Non nella sala centrale, che non poteva essere utilizzata per motivi di sicurezza, ma in un bunker antiaereo dell’Opera, cinque piani sottoterra, che è stato rimesso a nuovo e sistemato acusticamente per l’occasione.
Un rischio questo, a causa dei continui bombardamenti sulla città, ma la “cultura è un arma difensiva, che ci protegge da tutto quello che sta succedendo fuori”, dice Armen Kaloyan, regista e coreografo dell’Opera. “Abbiamo deciso che una ricorrenza del genere non poteva passare senza un nostro concerto. E il pubblico ne ha bisogno. Da molto tempo non c’è più alcun balletto sul palco”. Sottoterra, come le scuole elementari che hanno riaperto in cinque stazioni della metropolitana. Kharkiv è l’unica città sulla linea del fronte che ha riattivato la scuola in presenza. “I bambini hanno bisogno di socializzare, di stare tra di loro, non possiamo lasciarli anni chiusi in casa, spesso da soli, in preda alle loro paure, ansie, stress. Aprire delle scuole sotterranee dove ricreare una parvenza di normalità era una scelta praticabile”, dice una psicologa. Resilienza.
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Una donna col passeggino a Kiev
Fuori, i missili continuano a cadere. Uno centra l’antenna delle telecomunicazioni. Dopo un paio di giorni un secondo attacco missilistico finisce in un giardino tra una vecchia fabbrica e una serie di palazzine di venti piani. Fortunatamente ci sono solo alcuni feriti. “Sono salito nell’appartamento per vedere quali danni ci sono stati. Qui non c’era nessuno, mia sorella è scappata all’estero con i bambini. Purtroppo ci troviamo in un luogo dove il terrorismo russo è continuamente presente e muoiono civili che non hanno nessuna colpa se non quella di vivere la loro vita in pace in uno stato libero”, racconta l’uomo. Per terra ci sono dei disegni. Provengono dalla camera dei bambini. Peluche, bambole, una foto di famiglia in mezzo a un mosaico di schegge di vetro luccicanti sotto il sole di mezzogiorno. Un grande caleidoscopio di pezzi di vita sparsi in giro per l’appartamento. Gli allarmi aerei suonano di continuo durante la giornata.
Il sole cala su Kharkiv mentre nelle case ci si prepara a un’altra notte di ansia. A qualche centinaio di chilometri di distanza, un bosco sta prendendo fuoco. La macchina sfreccia in mezzo al fumo. Piccoli falò rischiarano la nera notte, sparsi in mezzo alla foresta del parco nazionale di Sviati Hory. La macchina entra a Lyman, oblast di Donetsk. A poca distanza, nei boschi davanti a Kreminna, in mano ai russi, opera un’unità della Legione Internazionale. La comanda ‘Sicily’, 26 anni, catanese, sergente junior del 2° battaglione. “Nel mio team siamo un italiano, uno spagnolo, un finlandese e tre americani. Ci occupiamo di correzione per l’artiglieria nemica e di sorveglianza e intelligence sulla linea del fronte tra Lyman e Kupiansk”.
A differenza di altri italiani venuti a combattere, ‘Sicily’ non ha molto interesse a mostrarsi sui social e lo ha fatto solo negli ultimi mesi perché ha bisogno di raccogliere fondi per comprare droni e riparare i veicoli dell’unità. Il più vecchio di loro ha 38 anni, il più giovane 22. “La decisione di venire a combattere l’ho presa uno dei primi giorni di guerra: guardavo il telegiornale che mostrava i combattimenti a Kiev, in fase di accerchiamento. E poi c’erano le immagini di questa giovane madre che aveva avuto una bambina dentro un bunker. Quello mi ha spinto. Mi sono mosso solo dopo un anno però per raggiungere di nuovo il fronte. Non mi ritenevo pronto a livello fisico”. Tra il 2018 e il 2019 Sicily ha passato sei mesi in Siria con i curdi nelle brigate internazionali dello Ypg, racconta. Insieme a lui, nella casa che hanno preso in affitto a una trentina di chilometri dal fronte, ci sono Vixie, Kat, Scooter, Lorax e Koli.
“Kat significa boia, in ucraino, ma non lo sapevo prima di venire qui. Anni fa uscivo con una ragazza ucraina... aveva uno dei suoi account sul mio telefono e si chiamava Katya. Così i miei amici hanno iniziato a chiamarmi Kat. Vengo dalla regione della Galizia, in Spagna. Per me essere qui è una questione morale: la democrazia, la libertà di una nazione, l’autodeterminazione. Mio nonno ha combattuto nella Confederación Nacional del Trabajo (Cnt) durante la Guerra civile spagnola. Sono stato in Mali a lavorare come contractor. Pensavo fosse un buon lavoro, ma ci sono cose che vanno oltre i soldi che puoi prendere se sei veramente convinto di fare la cosa giusta e che puoi fare la differenza. E se muori nel farlo, ne è valsa la pena”. Kat del gruppo è quello più riservato. Parla sempre a bassa voce. Ha un cappello mimetico da giungla sempre calato in testa.
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‘Coraggiosi come l’Ucraina’
Il gruppo si è riunito da poco. Koli, il finlandese, è appena rientrato nel Paese. “Per un anno ho semplicemente inviato attrezzature, donato un po’ di soldi, facevo quello che potevo. Poi ho fatto un primo viaggio umanitario in Ucraina. Lì ho deciso di diventare un soldato. Sono qui per aiutare i civili. I soldi certo aiutano, perché devo pagare le bollette a casa, ma non è quello il motivo per cui sono qui”. La paga di un soldato della Legione Internazionale in zona di combattimento arriva a 3’500 dollari al mese, non molto se si pensa che, come tutti qui, Koli e gli altri devono investire parte dei loro soldi per mantenere i loro veicoli, migliorare l’equipaggiamento, comprare cibo, pagare l’affitto di un appartamento. Koli ha una famiglia che lo aspetta a casa. È il più grande di tre fratelli: “Mia madre era davvero spaventata quando me ne sono andato. Anche mio padre non voleva, ma ha capito le mie ragioni. Questo è il mio ultimo viaggio. Ho fatto la mia parte per aiutare questo Paese e la sua gente”.
“Cosa difficilmente dimenticherò? La notte degli Shahed, i droni di fabbricazione iraniana che usano i russi. Hanno colpito una casa a circa 200 metri dalla nostra. Volavano direttamente sopra di noi. Sono stato svegliato dalla prima esplosione e ho sentito che c’era un altro drone in arrivo. Guardavo il soffitto, il drone era proprio sopra di noi. Pensavo di morire, non c’è modo di scappare. Per fortuna non ci ha colpito. Quando sono tornato in Finlandia, ogni volta che sentivo un motorino passare davanti a casa, avevo dei formicolii freddi lungo la schiena. Il rumore è simile. Mi ci sono voluti circa tre mesi per cancellare quella reazione. E poi sono tornato qui. Anche ieri ho sentito i droni. ‘Ci risiamo’, mi sono detto. Vorrei poter dimenticare quel suono e smetterla di avere tanta paura per aeroplani e motorini. Ma per fortuna non sono il caso peggiore. C’è gente che se sente un aereo salta nei cespugli o prova a nascondersi dietro a un divano”.
Sicily deve partire l’indomani per Pavlograd per recuperare un nuovo veicolo. Il loro è andato distrutto qualche giorno fa mentre rientravano dalle posizioni. A volte la convivenza non è facile. “Cerchiamo di mantenere un rapporto umano e sociale tra di noi e con il mondo esterno. La vita al fronte può essere difficile, significa spendere di più per prodotti di prima necessità, durante la notte non dormire bene perché c’è un missile che colpisce vicino a te... è uno stress, ma io e i miei compagni riusciamo a stare insieme”.
Scooter è andato a Sloviansk a comprare una moto da cross, una ‘Minsk’. Gira vestito come un biker quando è in abiti civili: bandana in testa, giubbotto e barba rossa lunga e curata. Viene dagli Stati Uniti, dal Texas. “Vedere saltare in aria i reparti maternità, rapire persone, stuprare bambini. Avevo la nausea di quello che stavano facendo i russi. Ho intravisto un’opportunità per fare qualcosa e sono qui ormai da due anni. La mia regola è: se qualcuno ha bisogno del tuo aiuto, lo aiuti. Se sto guidando per strada e vedo qualcuno con il cofano aperto, e ho degli attrezzi e dei cavi, mi sento responsabile. E penso che se vedi accadere cose del genere in Ucraina e permetti che succedano senza intervenire, sei colpevole tanto quanto chi le compie. Per quanto mi riguarda, preferirei di gran lunga morire qui piuttosto che vivere fino a cent’anni e dover affrontare il mio creatore e spiegargli perché non ho fatto nulla. Sono un credente, e per me questo è molto importante. Mia moglie non mi ha capito, mi ha detto: bene, vai. Non sarò qui al tuo ritorno. Eravamo già in una situazione difficile del nostro matrimonio, le cose semplicemente non funzionavano”.
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Combattente con gatto
Persone totalmente diverse l’una dall’altra, provenienti dai posti più disparati, si ritrovano in Donbass, con un’arma in mano. Eppure sono qui, con l’unico scopo di aiutare l’Ucraina in questa difficilissima guerra. Il gruppo di Sicily ha adottato un gatto. Si chiama Maria, ma è un maschio, se ne sono accorti dopo qualche tempo. Kat lo spagnolo ha le unghie smaltate di nero. “Mi piacciono. Andavo a molti rave underground in Galizia. Dipingersi le unghie con diversi tipi di vestiti. È una cosa estetica. Mi piacerebbe andarci anche qui in Ucraina, anche se non so dove li facciano. Ho una ragazza a Leopoli adesso, e mi piace il Paese. Non vorrei partire se riesco a trovare qualcosa da fare. Amo molto gli animali, mi piacerebbe lavorare, a guerra finita, in campagna, creando un rifugio per loro. Ma c’è qualcosa nell’esercito che è davvero unico. Non puoi replicarlo con nient’altro. È un sentimento di fratellanza con i tuoi compagni e con il tipo di lavoro che svolgi. È qualcosa che probabilmente mi mancherà quando me ne andrò”.
Vite interrotte che si ritrovano per ricostruire e ricostruirsi. Resilienza, la capacità di ognuno di noi di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, quello che è scritto su ogni muro e piazza di questo Paese. Quella che ancora devono affrontare gli abitanti di Kharkiv. Prima dell’estate i soldati di Putin hanno riattraversato i confini nel tentativo di creare una ‘zona cuscinetto’ per evitare le continue incursioni in territorio russo da parte dei battaglioni russi anti-Putin e di forze speciali e sabotatori ucraini. Di nuovo migliaia di persone nella regione di Kharkiv sono state costrette a fuggire, abbandonando tutto quello che avevano: animali, case, i loro morti. Un nuovo fronte si è aperto, una nuova ferita in questa Ucraina dove non c’è pace fino a quando Putin non ritirerà i suoi uomini.