Prodotto attuale e, allo stesso tempo, che pare arrivato in ritardo. Ma è proprio questo conflitto a fare di ‘Ripley’ una serie interessante (su Netflix)
Che strano momento culturale quello in cui il prodotto televisivo più rassicurante, esteticamente appagante, addirittura rilassante, al momento è una serie su un ladro di identità assassino e anaffettivo. Eppure ‘Ripley’, l’adattamento Netflix del romanzo di Patricia Highsmith ‘Il Talento di Mister Ripley’ (il primo di cinque libri con protagonista Tom Ripley, appunto), è in effetti una visione più tradizionalmente piacevole rispetto a serie tratte da videogiochi il cui coprotagonista è una specie di zombie senza naso (‘Fallout’), oppure serie che mischiano fantascienza e questioni di astrodinamica (‘Il problema dei tre corpi’). In questo senso ‘Ripley’, girata in bianco e nero in un’Italia immaginaria degli anni Sessanta – per la precisione a Roma e ad Atrani, paese costiero in provincia di Salerno – è al tempo stesso una serie attualissima e un prodotto arrivato in ritardo, che sembra figlio di un periodo leggermente precedente a quello attuale. Ma è proprio questo conflitto a farne una serie interessante al di là della bellezza e della bravura del protagonista – Andrew Scott, anche lui sex symbol contemporaneo con un fascino classico e una faccia levigata perfetta per il bianco e nero.
Persino rispetto al film del 1999 – quello con Matt Damon, Gwyneth Paltrow e Jude Law – ‘Ripley’ è una serie “vecchia”, volutamente lenta (anche per via delle quasi otto ore totali), in cui le cose succedono con tempi dilatati e i personaggi sembrano ragionare troppo, rendersi conto di cose evidenti sempre troppo tardi, almeno dal punto di vista di uno spettatore sgamato che ha allenato il proprio intuito paranoico con decine di serie e podcast true-crime. La storia dovrebbe essere conosciuta. Tom Ripley è un truffatore che vive di espedienti a Manhattan e che un detective privato fatica a scovare per affidargli una missione delicata. Il padre di Dickie Greenleaf è disposto a spedirlo in Italia, stipendiandolo, per fargli convincere il figlio aspirante artista a tornare in America e mettersi a lavorare sul serio. Perché il signor Greenleaf si affidi proprio a lui non è chiarissimo, pensa che sia amico del figlio ma evidentemente non ha fatto benissimo le sue ricerche, perché Dickie ricorda a malapena chi è Tom e Tom decide di ucciderlo e prenderne il posto nel momento stesso in cui lo vede. Odio e invidia a prima vista. Forse proprio perché la storia è già stata trattata e, anzi, è ormai diventata patrimonio dell’immaginario comune (‘Saltburn’, il film di cui si è parlato di più alla fine dello scorso anno, di fatto era una versione aggiornata di questa stessa storia) Steven Zallian, creatore e regista di ‘Ripley’, si può permettere di rendere tutto molto manifesto, a cominciare dal personaggio principale.
Il Tom Ripley di Andrew Scott è freddo e calcolatore, artefice del suo destino per quanto vittima della sua stessa impulsività e incapacità di programmare un omicidio fatto bene (Matt Damon, per dire, era più sottile, più morbido, fintamente ingenuo). Il successo del personaggio di Patricia Highsmith stava soprattutto nella sua capacità di sedurre, nonostante tutto, il lettore. “È quasi impossibile”, ha scritto Sam Jordison sul Guardian rileggendo i libri di Highsmith nel 2015, “non fare il tifo per Tom Ripley”. Be’, non è questo il caso. Non c’è pressoché niente per cui immedesimarsi nel personaggio di Andrew Scott, fenomenale proprio nello spogliarsi di ogni suo fascino naturale. Il suo Tom Ripley è uno scroccone – anche volendo mettere da parte gli impulsi omicidi – un arrampicatore sociale da quattro soldi, di cui ci sfuggono le motivazioni. Sappiamo che è rimasto orfano, che la zia che lo ha cresciuto lo riteneva un buono a nulla, ma è difficile darle torto e provare pena per un uomo adulto così cinico e glaciale. Arido, privo di dettagli che buchino la sua superficie vetrosa, soffre il confronto praticamente con tutti i personaggi secondari con cui entra in contatto, con l’investigatore Ravini che indaga sul caso, e persino con Freddie, un amico di Dickie che vediamo appena due volte. Nella scena in cui Tom si lascia più andare sembra in possesso di un minimo di ironia. “Preferirei impiccarmi che comprare un frigorifero” dice quando Dickie ne ha appena acquistato uno per la sua casa di Atrani dove il cibo va a male e per fare la spesa deve scendere e salire centinaia di gradini. “E perché mai?”, chiede Dickie. “Perché è un frigorifero”. Significa: “Stiamo a casa, uscire è faticoso, quindi compriamo un divano e altri mobili che non possiamo trasportare e apriamo un mutuo. Senza che te ne accorgi sei diventato vecchio, non esci più, e poi muori. E tutto è cominciato contando vaschette di ghiaccio”.
Dura solo un attimo, l’unica occasione in cui sembra avere una personalità. Ma la vuotezza di Tom non può che essere intenzionale, ed è forse proprio questa a rendere ‘Ripley’ un prodotto più attuale di quel che sembra. D’altra parte sarebbe strano se, in un’epoca in cui ci si comincia a rendere conto di quanto sia sbagliato alimentare con un intero genere la nostra attrazione morbosa per gli assassini, per i “cattivi”, trascurando le vittime, oggettificandole anche se solo nel nostro immaginario, ‘Ripley’ avesse la sfacciata pretesa di farci amare il suo protagonista.
Il distacco che proviamo rispetto al personaggio di Tom Ripley è un segno dei tempi che sono cambiati, e tira in ballo il giudizio conflittuale rispetto alla sua autrice. Se Patricia Highsmith ha elevato il noir al livello della letteratura considerata di ‘serie A’, ricevendo complimenti da Graham Greene e arrivando subito al successo col suo primo romanzo, ‘Sconosciuti in Treno’, adattato da Alfred Hitchcock, potendo fare una vita agiata e indipendente, non ha mai nascosto i suoi lati oscuri. Secondo alcuni amici di Highsmith, se non avesse avuto talento come scrittrice sarebbe finita per suicidarsi o commettere un omicidio. Un suo editore la considerava una insopportabile razzista. Anche secondo Andrew Wilson, suo biografo, Highsmith “è stata pericolosamente vicina a immaginare di uccidere sul serio”. In questo senso possiamo vedere Tom Ripley quasi come un suo alter-ego, considerando anche che l’autrice, forse sovrappensiero, si firmava “Tom” in alcune sue lettere. Difficile capire dove finisse la fascinazione intellettuale, una misantropia magari filosofica e sociale, e iniziasse qualcosa di diverso, di più oscuro. Dalla nostra comoda distanza temporale possiamo goderci il contrasto tra la qualità della sua opera e l’oscurità dei temi trattati. Lo stesso contrasto che c’è tra l’apparente semplicità di una scrittrice che si è trasferita nel Ticino all’inizio degli anni Ottanta per cercare “ordine e tranquillità” (i diari in cui descrive paesaggi e passeggiate si trovano nell’Archivio svizzero di letteratura di Berna) e che al tempo stesso annotava: “Uccidere è come fare l’amore”.