laR+ la recensione

I due fronti aperti di un reporter di guerra

Cristiano Tinazzi riannoda i fili della sua vita mentre copre il conflitto in Ucraina. Un libro che ci fa fare i conti con il (nostro) dolore

Cristiano Tinazzi durante uno dei suoi reportage in Ucraina
(C. Tinazzi)
13 maggio 2024
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Si può iniziare a parlare di un libro usando le parole di un altro scrittore che parla di un libro di un altro scrittore ancora? Non lo so, ma lo sto facendo. Perché leggendo “Tutto questo dolore” (Paesi edizioni) di Cristiano Tinazzi – giornalista i cui apprezzati reportage di guerra trovano spazio, tra gli altri (La7, Rsi, Il Messaggero…), anche sul nostro giornale –, non ho potuto fare a meno di recuperare dalla memoria (e poi da YouTube) un giovane Alessandro Baricco in Rai alle prese con “Cyrano de Bergerac” di Emile Rostand.

A un certo punto (che poi è il punto in cui Cristiano – l’amico a cui Cyrano scriveva le lettere d’amore per Rossana, la donna di cui entrambi erano innamorati – muore), Baricco dice: “La guerra, o il dolore più semplicemente, ci schiaccia contro il muro e ci costringe a far fuori le menzogne e tirar fuori la verità. Ogni tanto però lo fa con tanta violenza, senza garbo, e con tanta velocità che ci schiaccia e basta. Quello che fa è schiacciare tutto: dolore, menzogne… e non abbiamo tempo di dire la verità”.


Keystone
Bandiere sgualcite al vento dopo oltre due anni di guerra

Cristiano, non quello di Cyrano, ma Tinazzi, il tempo di dire la verità lo trova in questo libro che è un resoconto incrociato di due guerre, quella in Ucraina e quella con sé stesso. Per paradosso, queste pagine ragionate, in cui l’autore fa i conti con il proprio passato, la propria famiglia, i propri fantasmi, sono figlie di quella velocità, di quel sentirsi schiacciato contro il muro che ha trovato tante volte di fronte in questi ultimi anni in Ucraina. Una frase che ritorna nel libro fa capire bene quella sensazione: “C’è un proiettile che vedo arrivare nella mia mente ogni volta che attraverso una strada della morte, sfrecciando su un mezzo o attraversando di corsa una via della città vecchia. Ora muoio, dico. Ma poi non succede”.

Diario di un sopravvissuto

Tinazzi è un sopravvissuto, alla guerra, sì, ma – un po’ come tutti – anche alla vita stessa, che ti porta – prima o poi – ad attraversare lutti familiari, che sono pur sempre la morte vista in faccia, una faccia che ti somiglia anche quando non vorresti, anche quando te ne allontani. La faccia di un padre, una madre, una sorella. Tinazzi ha attraversato tutti e tre questi lutti e non ha paura a parlarne. Non ha paura nemmeno a dire che non sente niente (“Ho avuto un periodo di crisi durante la pandemia che ha portato a galla anche altri traumi personali. Traumi non elaborati, rimasti a bruciare sotto la cenere della memoria. L’impossibilità di provare emozioni sui lutti familiari, la morte dei miei genitori e quella di mia sorella. Il carico di emotività, quasi mai fatta salire in superficie, vissuta in tutti questi anni di lavoro, passati tra guerre, miserie e violenze. Niente o quasi mi ha mai toccato. Un metodo per salvare l’anima e la mia stabilità mentale…”), che non prova niente, lui che è capace di far provare ben più di qualcosa ai lettori dosando nei suoi reportage distanza ed empatia: equilibrio delicato e complicato da trovare che gli ha permesso di raccontarci decine e centinaia di morti in guerra, e – per estensione – la guerra stessa.


Keystone
Una donna in lacrime piange il marito morto al fronte

Tinazzi ha una capacità che in quest’epoca di giornalismo in diretta h24 si sta perdendo. Erroneamente ormai molti pensano che basti arrivare sul posto per primi, accendere la telecamera sul luogo di una strage e mettere un microfono sotto al naso a chi c’era per fare informazione, per spiegare cosa è successo e dove. Non è così.

Il giornalismo di Tinazzi, che emerge anche nel libro, è fatto di suoni (“Nel locale c’è un po’ di lounge music e pezzi pop. Nel mix di brani compare anche Ornella Vanoni con L’appuntamento. Solo che fuori dalla vetrina non c’è Milano. La primavera è finalmente arrivata”), odori e apparenti dettagli (“Saliamo al piano superiore. Le uniche cose rimaste sono cosmetici. I cosmetici non li fumi e non li mangi, non servono...”) i cui reali significati possono sfuggire a chi si limita a cristallizzare un momento e consegnarcelo per quel che è, mostrandocelo, certo, ma senza farcelo capire davvero.

La ‘giusta distanza’

A un certo punto l’autore cita un film: “Ho applicato sempre la regola della ‘giusta distanza’. È ‘la misura che tu devi sempre tenere, per te che scrivi e per le persone coinvolte nei fatti. Non troppo lontano, se no non c’è più pathos, ma neanche troppo vicino, porca bestia. Perché se un giornalista si perde nell’emozione, è fritto’, dice Fabrizio Bentivoglio in un film del 2007 del regista Carlo Mazzacurati, che si chiama proprio così: La giusta distanza”. Quella che si fa una gran fatica a trovare innanzitutto con sé stessi, perché come confessava in radio il protagonista di “Radiofreccia”, quello con “un grosso buco dentro”, proprio come Tinazzi, come il sottoscritto, come tutti – azzarderei – “da te stesso non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx”. Però, con difficoltà e cautela, puoi almeno provare a capirti, spiegarti.


C. Tinazzi
Tinazzi dentro un appartamento bomardato

Curioso che quel monologo di Radiofreccia continui così: “Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri”. Una frase che fa il paio con un’altra, attribuita proprio al regista Carlo Mazzacurati e oggi ripetuta, abusata e maltrattata fino a finire in quelle bacheche di Facebook dove si fanno coesistere Socrate e Fabio Volo. La frase è questa: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre”. Bella? Brutta? Boh. Vera sì, però.

La gentilezza e l’orgoglio

Tinazzi è gentile con l’umanità che incontra, con i gesti, ma ancor più con le parole che poi usa per raccontarla. Eppure in questo libro, dove accudisce la vita del prossimo, non è gentile né indulgente con sé stesso (“Sono asociale, evito spesso gli altri, non coltivo rapporti. A volte penso di avere qualche forma di autismo. Forse sono un lupo solitario, o semplicemente uno stronzo”). Ma sincero, sì.


Keystone
Una donna accompagnata al funerale del figlio

Lo è anche quando parla del padre, uno di quella generazione che sta scomparendo, e in cui molti lettori e lettrici potranno riconoscere il loro: “Gli uomini non piangono, mi diceva. Capisco solo ora. Ed è talmente banale il ragionamento che sembra superfluo discuterne, eppure non lo avevo compreso. Le canne si piegano al vento e tornano normali, dopo. Sopravvivono. Gli alberi, più resistenti, resistono indomiti ma di fronte a una tempesta più forte, a volte si spezzano. E muoiono. Ci sono persone che non riescono a piegarsi, sia per un orgoglio smisurato sia per incapacità di adattarsi alle situazioni. Perché ti hanno tirato su così, e così dovevi essere. L’orgoglio ti uccide lentamente, è un veleno a rilascio lento, fa diventare cattivi e ti fa reagire con rabbia. L’incapacità all’adattamento non ti fa sopravvivere a lungo in un ambiente. Ma queste cose le capisci solo dopo. Non quando hai vent’anni. È stancante guardarsi dentro, nel buio, un pezzo alla volta, quando fuori c’è un mondo che viaggia alla velocità della luce”. Schiacciato da una guerra in cui continua a fare ritorno e da una famiglia che non c’è più (e per questo sempre più ingombrante), Tinazzi ha scelto di mettere un po’ d’ordine e poi lasciare la porta di casa aperta a chiunque decida di affacciarsi, anche perché “non serve scusarsi per essere sé stessi… per mostrarsi senza filtri”. A un certo punto scrive: “Di quel dolore non ne potevo più”. Lì è nato un libro che è come un dialogo con il lettore, per un semplice motivo: parla lo stesso linguaggio dei nostri dolori.


Paesi Edizioni
La copertina del libro

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