Le navi deviano da Suez al Capo di Buona Speranza, con tempi dilatati e costi del trasporto saliti fino al 226%. Rincari che pagheranno i consumatori
Terroristi, ribelli, braccio armato dell’Iran. L’affannosa ricerca di un’etichetta da appiccicare sui droni e sui missili che da novembre minacciano il commercio e la stabilità politica mondiale sta impedendo, forse, di capire davvero chi sono e che cosa vogliono gli Houthi, e soprattutto perché stanno prendendo di mira le navi che dall’Asia raggiungono i porti europei e, più raramente, percorrono il tragitto inverso.
Gli Houthi, noti anche come Ansar Allah (sostenitori di Dio), sono un gruppo sciita armato che controlla gran parte dello Yemen, compresa lo capitale, Sana’a, e alcune aree occidentali e settentrionali vicine all’Arabia Saudita.
Fino a mercoledì scorso non erano considerati terroristi (era stata proprio l’amministrazione Biden, nel 2021, a cancellarli dalla black list in cui un Trump già in declino li aveva inseriti per inviare un messaggio a Teheran, più che allo Yemen), ma piuttosto come ribelli. Sono, in realtà, un grande e ricco clan originario della provincia nordoccidentale di Saada che pratica la forma zaidita dello sciismo. Gli zaiditi oggi costituiscono non più del 35% della popolazione dello Yemen, ma un loro imamato ha governato il Paese per mille anni, prima di essere rovesciato nel 1962. Da allora, privati del potere politico, hanno lottato per ripristinare la loro autorità e influenza nello Yemen.
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Un ribelle Houthi sul ponte della Galaxy Leader
Negli anni 80 il clan Houthi, sentendosi minacciato dai predicatori salafiti finanziati dallo Stato, ha provato il ‘salto di qualità’, iniziando a organizzare, non sempre con un consenso diffuso, un movimento per il ripristino delle tradizioni zaidite, poi nato negli anni 90: ma l’opinione pubblica ha iniziato a occuparsi di loro solo nel 2014, quando il gruppo si è ribellato al governo dello Yemen, costringendolo a dimettersi e innescando una crisi umanitaria. Il gruppo ha poi trascorso anni, con il forte sostegno dell’Iran, combattendo una coalizione militare guidata dai sauditi. Le due parti hanno anche più volte tentato di avviare colloqui di pace per un cessate il fuoco permanente.
Definire gli Houthi semplici “alleati dell’Iran” è comunque riduttivo nella migliore delle ipotesi, fuorviante nella peggiore. Lo dimostra il fatto che lo Yemen è logorato da dieci anni da una guerra civile che sta consentendo agli Houthi di mantenere il controllo di estese parti del Paese. Non solo. Da almeno 4 anni gli attacchi missilistici Houthi contro l’Arabia Saudita sono diventati drammaticamente frequenti e il gruppo è diventato sempre più audace anche nella scelta degli obiettivi.
Nel luglio 2018, in quella che oggi possiamo definire la grande prova degli scenari che stanno accompagnando questi giorni, gli Houthi hanno attirato l’attenzione degli osservatori e dei governi internazionali attaccando una petroliera saudita. Un’operazione simile a quella che, lo scorso 18 novembre, poco più di un mese dopo l’attacco di Hamas a Israele, li ha portati a sequestrare “in solidarietà con la popolazione di Gaza” la nave giapponese – ma riconducibile a un magnate israeliano – Galaxy Leader, poi trasformata con una impeccabile mossa di propaganda in un’attrazione turistica. Un gesto, quest’ultimo, che ha consentito agli Houthi di guadagnare consenso e reclutare, secondo fonti di intelligence, centinaia di ‘volontari’ e decine di migliaia di sostenitori in pochi giorni. E che ha convinto i vertici del movimento a trasformare il traffico marittimo in un facile bersaglio e strumento di pressione.
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L’attacco, con tanto di elicottero, alla Galaxy Leader, nave nippo-israeliana
Minacciare, attaccare o addirittura porre sotto sequestro navi straniere con interessi diretti o indiretti in Israele (in sostanza ben più del 50% della flotta mondiale) per gli Houthi è diventata la modalità più semplice per costringere la comunità internazionale a liberare Gaza da quello che definiscono “un assedio criminale”. Non solo perché il 30% del traffico marittimo globale passa attraverso Bab al-Mandeb, ma perché una nave mercantile (sia essa portacontainer, portarinfuse o cisterna) non ha strumenti per difendersi: il personale armato a bordo non è consentito da tutte le amministrazioni marittime e, in ogni caso, nessun commando di guardie private sarebbe in grado di contrastare attacchi coordinati provenienti da cielo (elicotteri o droni) e mare. Non va dimenticato, infatti, che quelli degli Houthi sono, a tutti gli effetti, assalti di natura militare e non azioni di pirateria, e non è casuale che Usa e Regno Unito abbiano deciso di rispondere militarmente. Pur sapendo ciò che comporterebbe l’esplosione di un conflitto vero e proprio dentro i confini dello Yemen.
In attesa degli sviluppi ‘diplomatici’ della situazione, quasi tutti gli armatori hanno preferito abbandonare l’area, e di conseguenza il transito a Suez, e dirottare le proprie navi sul Capo di Buona Speranza. Con un’impennata di costi che, come sempre, andranno a ricadere sui consumatori, e con effetti enormi sui già precari equilibri economico-politici di Nord Africa e Medio Oriente: basti pensare che a novembre avevano attraversato il Canale di Suez 2’264 navi con un introito, per l’Egitto, di 855 milioni di dollari. A gennaio il traffico a Suez è crollato del 40% e le navi dirottate verso il Sud Africa rappresentano ormai il 62% della capacità globale.
È sufficiente consultare il Freightos Baltic Index (Fbx) per capire quanto pesa la guerra dei traffici marittimi scatenata dai miliziani yemeniti. I noli (ovvero il costo del trasporto di un container da 40 piedi) sulle rotte dall’Asia verso la costa est del Nordamerica, che normalmente usano Suez e che includono sovrattasse legate al rischio Mar Rosso, sono saliti a 4’234 dollari, segnando un aumento del 69% da metà dicembre. Per la rotta Asia-Nord Europa, i noli hanno raggiunto i 4’789 dollari (+226%), mentre per le rotte verso il Mediterraneo sono arrivati a 5’202 dollari (+116%). Ed è probabile che l’ascesa non sia finita.
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Una nave portacontainer di Msc
I noli dall’Asia alla costa ovest del Nordamerica sono aumentati del 74% a 2’713 dollari da metà dicembre, ma secondo gli analisti saliranno a 5’000 dollari perché le compagnie di navigazione stanno deviando molti volumi verso la costa occidentale per evitare ritardi su quella orientale. Con il rallentamento della domanda a fine gennaio, il settore potrebbe avere una tregua e, grazie alla consueta pausa nei volumi dopo il capodanno cinese, i noli potrebbero iniziare a diminuire a fine febbraio, ma resteranno comunque più alti del previsto fino a quando il traffico delle portacontainer non tornerà completamente alla normalità nel Mar Rosso.
Siamo, comunque, ben al di sotto del livello di 15’000 dollari per le rotte europee e mediterranee e dei 22”000 dollari per le destinazioni statunitensi raggiunti durante i picchi di volume e la congestione dei porti provocati dalla pandemia.
Un’ulteriore conseguenza della ‘sindrome del Mar Rosso’ è l’aumento del prezzo del noleggio delle navi. L’indice Harpex, che misura i tassi di ‘affitto’ da sei a dodici mesi per le navi con una capacità fino a 8’500 container, è aumentato del 12% da metà dicembre. Il motivo è semplice: gli armatori, costretti a tempi di percorrenza più lunghi, stanno cercando di incrementare la capacità di stiva per rispettare i contratti con la clientela. Il 2024 era atteso come un anno molto debole per i tassi di noleggio, a causa dell’ondata di consegne di nuove costruzioni: con l’effetto del Mar Rosso, l’indice Harpex è ora del 28% superiore a quello di gennaio 2019, anno pre-Covid.
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Houthi armati sulla nave sequestrata