Otium

Le criptoillusioni e una democrazia da salvare

Di titoli finanziari in forma digitale e di un libro, quello di Carlo Galli sullo stato liberaldemocratico occidentale a rischio (ma con qualche speranza)

Le criptovalute non sono delle monete

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

1. L’illusione delle criptovalute

di Sergio Rossi,

professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo

Le criptovalute non sono delle monete. Si tratta di “criptoattivi”, vale a dire degli attivi finanziari crittografati. Ciò significa che nei portafogli elettronici degli agenti economici interessati ci sono dei titoli finanziari in formato digitale, che sono coperti da un codice numerico inteso proteggere la sfera privata dei loro proprietari.

La distinzione tra moneta e attivi finanziari è essenziale, seppure raramente percepita anche dagli addetti ai lavori. La moneta è lo strumento di pagamento finale delle transazioni, vale a dire che a seguito dell’emissione monetaria da parte del sistema bancario, l’acquirente di un bene, servizio o attivo finanziario qualsiasi non ha più alcun debito verso il venditore, quando quest’ultimo riceve un importo accreditato sul proprio conto in banca. Un attivo finanziario, invece, è un titolo che dà diritto a una quota di capitale o di reddito futuro del soggetto economico che lo ha emesso.

La moda delle criptovalute è spesso paragonata alla bolla dei tulipani, scoppiata nel 1637 in Olanda, quando il prezzo dei bulbi di tulipano crollò improvvisamente, dopo aver raggiunto dei picchi esorbitanti negli anni precedenti, a seguito di una crescente ondata di speculazioni in questo campo. Come il caso del bitcoin illustra chiaramente, il prezzo di questo criptoattivo è molto volatile e dipende da una serie di fattori – per esempio una guerra, una pandemia, una regolamentazione più severa delle attività finanziarie o un allentamento del segreto bancario. Questa volatilità consente di ottenere rapidi guadagni dalla compravendita di bitcoin, come di altri criptoattivi. D’altro lato, però, è possibile incorrere in pesanti perdite, quando l’evoluzione dei loro prezzi si manifesta al ribasso. Le scarse conoscenze sui criptoattivi hanno attratto molti agenti economici non specializzati, ovvero semplici cittadini che hanno pensato di poter giocare al grande casinò della finanza globalizzata, acquistando e poi vendendo bitcoin, ethereum, tether e così via. C’è chi ne ha tratto un guadagno, ma molti hanno subìto delle perdite enormi. Inoltre, la differenza fra i criptoattivi e gli altri attivi finanziari consiste nel fatto che le criptovalute non hanno alcun fondamento reale. Sebbene la finanza internazionale si sia specializzata nel creare sempre nuove tipologie di titoli derivati – ovvero non legati direttamente a un attivo economico reale, come un’azienda o un immobile –, questi derivati sono perlomeno legati ad altri titoli che, da parte loro, sono addossati all’economia reale. Per le criptovalute, invece, non esiste alcun legame con l’economia reale e a questo riguardo James Dimon – presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase (la più grande banca sul piano mondiale) – ha affermato che «il bitcoin è una frode. È molto peggio che la bolla dei tulipani».

Ciò non toglie che la tecnologia della blockchain, su cui si basa la creazione di bitcoin e di molti altri criptoattivi, possa essere integrata nel sistema dei pagamenti, per gestirne il traffico in seno al sistema bancario – formato dall’insieme delle banche di ogni tipo e dimensione, sopra le quali si trova necessariamente una banca centrale in quanto istituzione di pagamento finale nel mercato interbancario. Infatti, ogni pagamento necessita di una banca per essere svolto in maniera finale, ossia per fare in modo che l’acquirente di un bene, servizio o attivo finanziario non abbia più alcun debito nei confronti del venditore. Come le aziende (private o pubbliche) e tutte le persone fisiche devono far capo a una banca per svolgere i loro pagamenti in maniera finale, così anche le banche devono far capo a un’istituzione di pagamento (una banca centrale) per lo svolgimento corretto degli ordini di pagamento tra di esse. Logicamente, non esiste alcun soggetto economico che possa pagare in maniera finale i propri acquisti tramite una semplice promessa di pagamento (un “pagherò”) che questo soggetto cede alla sua controparte. È per questo motivo che il sistema bancario è strumentale per l’ordinato funzionamento del traffico dei pagamenti. Senza le banche, i pagamenti non possono essere finali, ossia definitivi e risolutivi della situazione debitoria degli acquirenti su qualsiasi tipo di mercato. Invero, il traffico dei pagamenti fra le banche è enorme e questa è la ragione essenziale per cui è impensabile lasciare fallire un istituto bancario senza che ciò abbia delle ripercussioni estremamente negative nell’insieme del sistema economico – come osservato recentemente nel caso di Credit Suisse sia sul piano nazionale sia su quello globale.

Basta guardare alla storia monetaria per capire che la forma della moneta è andata sempre più a smaterializzarsi nell’arco degli scorsi secoli: dalla moneta materiale (sotto forma di conchiglie, pietre, pezzi di legno, spezie, metalli preziosi, metalli vili, carta) si è via via passati a forme di moneta immateriale (moneta scritturale, moneta elettronica) che ora sta assumendo una forma digitale (per esempio con l’uso della crittografia). Se la forma monetaria è stata completamente dematerializzata, la natura della moneta non è mai cambiata né potrà mai cambiare: si tratta, in realtà, di un attivo–passivo, vale a dire di una unità puramente numerica registrata sia all’attivo sia al passivo nella contabilità bancaria.

Le nuove tecnologie hanno reso obsoleta la forma fisica della moneta. La possibilità di accedere – con uno smartphone o tramite una carta magnetizzata – a un conto digitalizzato e registrato nel sistema informatico delle banche, ha fatto diminuire l’utilizzo delle banconote e delle monete metalliche nei pagamenti. Una nuova tappa in questo processo potrebbe essere l’integrazione della tecnologia blockchain da parte delle banche centrali, che emetterebbero così una cripto-moneta a tutti gli effetti e non un criptoattivo. Alcune banche centrali (a cominciare da quella cinese) hanno già iniziato a emettere una moneta digitale di banca centrale (MDBC). Due sono i tipi di MDBC: una prima tipologia è quella che riguarda solo il sistema bancario, cioè l’insieme delle banche di ogni tipo. Si tratta di una trasformazione digitale delle riserve monetarie che le banche detengono in banca centrale per lo svolgimento del traffico dei pagamenti interbancari. La seconda tipologia, invece, riguarda l’insieme dei soggetti economici, in particolare le famiglie e le imprese, che potranno far uso di una MDBC in sostituzione o quale alternativa del contante (banconote, monete metalliche) ma anche dei depositi bancari (moneta scritturale). Si tratta di una sfida importante per le banche, in quanto potrebbero avere maggiori difficoltà a raccogliere i risparmi che sia le persone fisiche sia quelle giuridiche potrebbero decidere di accumulare sotto forma di MDBC, per evitare di perdere questi risparmi in caso di fallimenti bancari. Esiste inoltre la questione ambientale, che non è certo secondaria: la tecnologia blockchain necessita di molta energia per funzionare, siccome connette numerosi sistemi informatici che concorrono a svolgere le transazioni. Il riscaldamento globale impone una riduzione del consumo energetico, mentre la tecnologia blockchain l’aumenta, anche se alcuni criptoattivi sono meno energivori di altri. Oggi la blockchain non offre dunque dei vantaggi, tranne l’anonimità di chi svolge le transazioni. Ciò è comunque discutibile, soprattutto perché alimenta le operazioni illegali (come la vendita di armi e droga) e la sottrazione delle imposte.

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2. Democrazia, ultimo atto?

di Andrea Ghiringhelli, storico

Vi ricorderete tutti del famoso libro di Fukujama, La fine della storia e l’ultimo uomo (Milano, Rizzoli, 1992): asseriva che, sconfitti nazismo e fascismo, sconfitto il comunismo, la democrazia liberale aveva definitivamente trionfato e sembrava poter conquistare il mondo.

Allo Stato democratico liberale – che promette giustizia, libertà, parità di diritti e una soluzione istituzionale che consente di gestire in maniera pacifica la diversità in società pluralistiche – non si opponevano alternative migliori. In questo senso Fukujama intendeva la fine della Storia. Poi le cose sono cambiate e l’idea che la democrazia liberale fosse il migliore dei sistemi possibili è definitivamente tramontata. È “la fine della fine della storia” ci dicono alcuni studiosi e indicano come svolta decisiva la rabbia dell’antipolitica nei primi decenni del nostro secolo. In questi ultimi anni si sono moltiplicate le opere che indagano sulla crisi della democrazia liberale. Alcuni titoli, non molto incoraggianti: Come muoiono le democrazie, L’autunno della liberaldemocrazia, Il tramonto della democrazia, Come la democrazia fallisce, Controdemocrazia, Così finisce la democrazia ecc..

Uno dei tarli che ha corroso i principi dello Stato democratico liberale è sicuramente l’avvento, negli anni Settanta del XX secolo, del neoliberismo: ha smentito le premesse, su cui si regge uno Stato democratico liberale, di giustizia, libertà, parità dei diritti e solidarietà. Oggi siamo entrati nell’era delle democrazie illiberali, un ossimoro che trova attuazione in Ungheria, Polonia, Russia, Turchia, dove le elezioni sono puramente strumentali, le libertà e il pluralismo negati, le opposizioni soffocate. Paradossalmente sono proprio questi fenomeni a rivalorizzare i principi alla base delle democrazie liberali che hanno un grande vantaggio rispetto a qualsiasi altro sistema di governo: la capacità di autointerrogarsi e via via di autocorreggersi.

Fra i tanti volumi che si interrogano sui destini dello Stato democratico liberale, vi è quello del filosofo politico Carlo Galli, Democrazia, ultimo atto?, Torino, Einaudi, 2023. Un testo di lettura impegnativa ma assai importante per l’originalità dell’approccio. L‘autore ammette che in Occidente lo stato liberaldemocratico è a rischio ma può essere rivitalizzato attraverso un forte investimento politico. Sostanzialmente, ci dice Galli, è la transizione dalla democrazia liberale alla democrazia liberista, che pratica una libertà ristretta all’utile, a scoperchiare le contraddizioni. L’offensiva neoliberista, a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo, pone fine alle politiche redistributive del compromesso socialdemocratico, ridimensiona decisamente il Welfare, accentua brutalmente le diseguaglianze, evidenzia il crescente divario fra ricchi e poveri, sgretola i ceti medi. Le conseguenze pesantissime e negative di questa transizione che subordina la politica all’economia si conoscono. Come recuperare allora le tracce della democrazia liberale? Attraverso un costante processo di autocritica, di costante realismo critico, poiché la democrazia, come del resto la libertà, si fonda su un equilibrio instabile che richiede una sorveglianza speciale e una costante manutenzione. Così si esprime Carlo Galli che auspica una politica democratica in cui l’uomo sia autore e non semplicemente attore o spettatore. Una politica, insomma, in grado di superare la subordinazione dell’agenda della politica agli interessi economici. Una politica in cui le sinistre non si limitino a porsi contro le destre, ma siano in grado di affrontare, come non è stato fatto fino ad oggi, le cause strutturali (la subordinazione al paradigma che subordina la politica alla logica del profitto) che generano i disagi cavalcati dalle destre. Questo e tanto altro nel volume di Carlo Galli. Che, a me pare, sia prima di tutto un appello alla cittadinanza attiva, critica e responsabile, in grado di promuovere una democrazia politica “che non abbia come finalità il profitto di alcuni ma il fiorire di tutti”.


Il volume