Il centravanti del Servette giustiziere del Lugano lo scorso weekend è, come i suoi antenati, un autentico giramondo
Fino a trent’anni fa sarebbe stato del tutto normale che a decidere una partita di calcio disputata a Cornaredo fosse un ragazzo con scritto Crivelli sulla carta d’identità . Le squadre ticinesi infatti, fin lì, vantavano diversi giocatori provenienti da famiglie locali. E, per la verità , a schierare atleti dal cognome svizzero-italiano erano spesso perfino le più blasonate compagini d’Oltre Gottardo.
Tempi ormai lontani, in nessun modo replicabili. E non perché quaggiù siano scomparsi i talenti del pallone, ma perché sempre più spesso i nostri migliori calciatori portano patronimici alieni all’araldica locale. Colpa – o merito – di molte cose assai più grandi di noi, che neppure proveremo a elencare né tantomeno a spiegare.
A segnare l’unico gol nel match dell’altroieri fra Lugano e Servette, come si è intuito, è stato un Crivelli che non solo non veste la maglia dei sottocenerini – gioca infatti per i ginevrini – ma che con ogni probabilità nemmeno è mai stato consapevole del fatto che nelle sue vene scorra un po’ di sangue svizzero, e nella fattispecie ticinese.
Crivelli è oggi il sesto cognome più diffuso nel nostro cantone, e c’è da scommettere che lo fosse già nella seconda metà dell’Ottocento, cioè l’epoca in cui immaginiamo che i trisnonni del calciatore in questione – insieme a una quota enorme di conterranei – abbiano deciso di abbandonare le nostre lande allora così ingenerose per andare a guadagnarsi il pane là dove ce n’era un po’ di più.
Molti loro concittadini, nei decenni precedenti, avevano attraversato gli oceani in cerca dell’oro, e tanti altri – ancor prima – erano migrati un po’ in tutta l’Europa, portando conoscenze e forza-lavoro e ricavandone salari più dignitosi di quelli a cui erano abituati. Una delle mete più gettonate, da sempre, era stata la Francia, ed è proprio lì – ripeto, ipotizziamo – che si diressero gli avi del Crivelli del Servette.
Ciò che invece sappiamo con certezza è che quei vecchi parenti – dopo qualche anno lontani da casa e divenuti ormai francesi al 100% – un bel giorno rifecero le valigie e si imbarcarono per andare a mettere radici in Africa, per la precisione in Algeria, che ai tempi sottostava a Parigi e che agli uomini di buona volontà offriva occasioni più ghiotte di quelle a disposizione entro i confini dell’Hexagone. Ed è proprio laggiù che nacquero dapprima i nonni del Crivelli calciatore e in seguito suo padre, che dunque era un cosiddetto pied-noir.
La Storia, poi, indusse o costrinse i Crivelli a fare di nuovo vela verso nord, e fu a Marsiglia – porta d’Oriente e città più cosmopolita del Mediterraneo – che il papà dell’attuale centravanti del Servette divenne adulto e si innamorò del pallone, tanto da riuscire a giocare un paio d’anni nella seconda squadra dell’Om.
Nel Dna familiare, ad ogni modo, si era ormai innestato il gene del giramondo, e così fu a Rouen, molto più a nord, che nel 1995 finalmente vide la luce il nostro Crivelli, al quale fu imposto il nome di Enzo, come toccò a molti bimbi i cui padri tifosi marsigliesi avevano potuto ammirare, alla fine degli anni 80, le magie dell’uruguagio Enzo Francescoli. Sulle rive della Senna il pargolo ci rimase comunque poco, la famiglia infatti decise presto di tornare a sud, facendo dapprima tappa da Albi e infine stabilendosi in Costa Azzurra.
Oltre a quelli pallonari, Enzo – attaccante non troppo prolifico ma molto bravo nel gioco spalle alla porta e nel creare spazi per i compagni – ereditò pure i cromosomi della dromomania, o Wanderlust che dir si voglia, e infatti iniziò già da giovanissimo a spostarsi di continuo: Cannes, Bordeaux, Bastia, Angers, Caen, Istanbul, Antalya, Saint-Etienne, di nuovo sul Bosforo e infine – come detto – sulle rive del Lemano. Chissà se domenica a Cornaredo, mentre dava un dispiacere ai tifosi del Lugano, si è sentito almeno un po’ in colpa nei confronti della sua antica patria?