Dopo le accuse di Amato a Parigi ricostruiamo un caso di studio nelle università con il titolo ‘Come non si organizza un’inchiesta di un incidente aereo’
Ciò che manca, nelle deduzioni esternate dal professor Giuliano Amato nell’intervista a la Repubblica sulla tragedia del DC-9 Itavia precipitato il 27 giugno 1980 nel Mar Tirreno fra le isole di Ponza e Ustica, è una pur minima aggiunta a ciò che serve a fare da base a una seria inchiesta: ovvero nuovi fatti. L’unica novità – la telefonata d’avvertimento di Bettino Craxi a Gheddafi – è stata subito smentita dalla figlia Stefania, attuale presidente della Commissione esteri e difesa del Senato italiano.
Andare alla ricerca di fatti – analizzarli, registrarli, metterli in relazione secondo procedure codificate per trarne indizi, e dai collegamenti logici giungere a ipotesi solide – è il mestiere dell’investigatore. E se si tratta d’investigare un fenomeno complesso, per proseguire al passo successivo della coagulazione di una o più tesi da mettere a confronto occorrono più investigatori specialisti in diverse e determinate discipline.
Un incidente aereo è sempre un fenomeno complesso, che richiede d’essere esaminato accuratamente da molti diversi punti di vista, e quindi da diverse persone esperte e specificamente formate al ruolo d’investigatore nelle varie branche della scienza riguardanti le operazioni di volo: strutturistica e tecnica dei materiali all’aerodinamica, propulsione, strumentazione elettronica, per concludersi sempre con uno studio del fattore umano, e cioè della personalità e dei comportamenti di tutti coloro che possono essere considerati coinvolti: dai piloti e dal personale responsabile della gestione e manutenzione del velivolo su su fino al management di una compagnia aerea e persino a quello del costruttore dell’aereo. Basti ricordare l’attuale vicenda del Boeing 737 Max.
Keystone
L’ex premier italiano Giuliano Amato
Tutto ciò è codificato in un documento denominato Annesso 13 alla Convenzione dell’Organizzazione dell’aviazione civile internazionale (Oacii/Icao), un’agenzia dell’Onu con sede a Montreal, Canada. In quel documento sono definite – passo per passo – tutte le azioni che una commissione d’inchiesta deve svolgere per stabilire che cosa è accaduto, come e in quali circostanze. E tutto ciò è stato puntualmente eseguito dallo Stato italiano, con la nomina di una Commissione d’inchiesta. Affidata al direttore d’aeroporto Carlo Luzzatti, essa s’è messa immediatamente al lavoro sulle poche evidenze che al momento erano disponibili.
Parallelamente si è attivata la funzione investigativa della magistratura, per opera della Procura di Marsala, che già la mattina seguente inviava i carabinieri a prelevare i documenti di servizio del locale Centro radar della Difesa aerea, comprendenti anche i nastri della registrazione dei dati radar. La differenza sostanziale fra le due inchieste parallele è che quest’ultima ha come scopo primario la ricerca delle responsabilità civili e penali di ciò che è accaduto, e che per attuarlo il giudice richiede la collaborazione di periti di propria scelta.
Analoghe operazioni di sequestro avvenivano in altri centri operativi e uffici dell’Aeronautica militare italiana che, a quel tempo, era ancora – per qualche mese – responsabile della gestione dell’assistenza al volo civile nello spazio aereo nazionale prima del trasferimento del servizio a un nuovo ente civile in via di formazione che in seguito si sarebbe evoluto fino a diventare l’attuale Enav (Ente nazionale d’assistenza al volo), analogo al nostro Skyguide svizzero e a organizzazioni simili che – collegate insieme in modo coordinato e con le medesime regole e procedure – gestiscono il traffico aereo su scala mondiale.
Chi scrive è stato testimone diretto di molti fatti relativi a quella tragedia dell’aria fin dai primi minuti dopo che i collegamenti radio di quel volo – proveniente da Bologna e diretto a Palermo – con il Centro regionale di controllo di Roma Ciampino (in sigla Acc Roma) erano cessati improvvisamente. Quindi proseguirò in prima persona il racconto, a cominciare da quel venerdì sera attorno alle 21.30, quando nella mia abitazione a Varese ricevetti una telefonata dalla redazione de il Giornale nuovo diretto da Indro Montanelli, con il quale collaboravo già come giornalista pubblicista, ancor prima di lasciare il servizio nell’Aeronautica militare che avevo svolto per vari anni con la qualifica professionale di controllore del traffico aereo alla Torre di controllo di Milano Linate e all’Acc Milano.
Mi si chiedeva di recarmi alla sede milanese del giornale, da dove poi mettermi in contatto con il collega Pietro Radius, il quale si trovava a Palermo Punta Raisi. Meno di un’ora dopo, avendo acquisito solo pochi elementi da Radius, chiamai il numero diretto del caposervizio dell’Acc Roma. Il collega mi riconobbe e non ebbe difficoltà a illustrarmi la situazione in sala. Mi fece anche parlare con i due controllori che avevano seguito le ultime fasi di quel volo terminando il controllo radar subito dopo il passaggio sul radiofaro di Ponza dove l’aereo aveva imboccato l’aerovia che conduce a Palermo e poi prosegue per Tunisi e l’Africa. In essa era disponibile solo il controllo procedurale via radio. Proprio la mancata risposta alla comunicazione del controllore del settore aerovie Sud, che invitava i piloti del volo IH870 a proseguire la discesa e collegarsi con la Torre di controllo di Palermo, aveva dato inizio alla procedura di emergenza.
Keystone
Studenti al lavoro sulla fusoliera dell’aereo
La mia conversazione con i controllori di Roma a un certo punto fu disturbata da forti rumori di fondo provocati da un assembramento che si era formato nel corridoio appena fuori dall’ufficio del capo centro, che nel frattempo era giunto. Nel frastuono spiccò una voce, un grido: “Lo hanno buttato giù!”.
Ciò che intendeva affermare quell’assistente controllore mentre sventolava copie dei telex riguardanti riservazioni di spazio aereo per esercitazioni militari Usa e Nato nel Tirreno meridionale e nel canale di Sicilia – era la convinzione che fosse accaduto ciò che da anni i controllori temevano: una collisione, o comunque un disturbo catastrofico del volo di un aereo di linea per opera di un caccia delle portaerei. Quella frase, rimbalzata nei corridoi dell’edificio fino in sala telescriventi, qualche giorno dopo sarebbe stata riferita da un sottufficiale al proprio vicino di casa, di nome Andrea Purgatori, inviato del Corriere della Sera.
Con quella frase non si voleva far altro che rimarcare una situazione che gravava molto sul sistema di controllo delle aerovie Sud, in quanto una clausola nelle convenzioni in ambito Nato consentivano alle portaerei operanti in quei mari di provvedere autonomamente alla gestione della sicurezza dei voli da esse originati anche negli attraversamenti delle aerovie, senza collegamenti radio e spesso anche senza uso del transponder radar.
D’altra parte non vi era alternativa, in quanto la portata dei radar utilizzati per regolare il traffico aereo non raggiungeva quelle aree, e anzi proprio a quella carenza era dovuta la cessazione del servizio di controllo radar poco dopo il sorvolo di Ponza, che mi era stato evidenziato dai colleghi.
Subito dopo chiamai la Torre di Palermo Punta Raisi, e vi trovai un amico molto disponibile, costernato perché totalmente privo d’informazioni: nessun contatto radio e tantomeno radar. Mi propose di farmi da ponte sulla linea telefonica della Difesa aerea con il centro di Marsala. Il Maggiore capo turno mi spiegò che avevano dovuto interrompere un’esercitazione al simulatore, richiesta per mantenere le qualifiche nella rete Nadge della Nato, per liberare il registratore impiegato come generatore di tracce e utilizzarlo in “playback” per cercare l’ultima posizione del volo Itavia. Una volta trovata, l’avrebbero comunicata al Centro di coordinamento del Soccorso Aereo, dal quale sarebbe stata diffusa agli enti partecipanti alle ricerche in mare. Aveva fretta, perché sapeva di dover preparare tutto il materiale alla magistratura inquirente il mattino seguente.
Cedimento strutturale, missile, bomba: nessuna di queste ipotesi, che in mancanza di elementi tecnici reali non erano altro che congetture, ebbe inizialmente prevalenza. Quella del missile nacque da un commento di un tecnico dell’ente americano per l’investigazione degli incidenti nei trasporti, che fu incaricato di valutare i contenuti di un nastro di registrazione dei dati rilevati a grande distanza da uno dei radar di Acc Roma. Circa 6 chilometri a ovest della traccia un po’ zigzagante del volo di linea, in corrispondenza di due battute del raggio esploratore nell’arco di un minuto prima della scomparsa del segnale identificativo del volo IH870, emergono dal nulla due tracce.
Sulla base della propria esperienza anche come pilota da caccia, John Macidull affermò più o meno così: se quello fosse un caccia, la sua traiettoria sarebbe congruente con una virata di attacco contro il DC-9. Un attacco a distanza, perché la traccia del bersaglio scompare quando l’attaccante si trova ancora distante oltre 5 chilometri, e l’unica arma offensiva utilizzabile sarebbe un missile aria-aria a guida radar.
A. Artoni
L’ipotesi della bomba a bordo
A portare quel nastro a Washington per farlo esaminare erano due generali in pensione: il presidente del Registro aeronautico italiano, responsabile del controllo tecnico di sicurezza dell’aviazione civile, e il consulente per i rapporti con le istituzioni del presidente dell’Itavia. La compagnia era in grave difficoltà economica e anche accusata di aver dedicato poche risorse alla manutenzione dei propri velivoli, e ciò avvalorava l’ipotesi che il Dc-9 si fosse sfasciato in volo a causa delle vibrazioni indotte dalla forte turbolenza riscontrata quella sera sul Tirreno.
L’ipotesi del missile piacque al ministro dei Trasporti Rino Formica, e fu subito adottata dai media italiani. Primo fra tutti il Corriere della Sera, che in Purgatori trovò il campione memore di quell’avvertimento “l’hanno tirato giù”.
La teoria del missile resistette, e resiste tuttora nell’immaginario collettivo, anche dopo che – con il recupero quasi completo e la ricostruzione visuale delle parti del velivolo – trovò maggior forza l’ipotesi che quei danni alla struttura rivelavano l’azione esplosiva di una bomba collocata a bordo. Su questa linea si sono schierati concordemente la maggioranza dei periti internazionali incaricati dal giudice istruttore Rosario Priore. La sua “sentenza ordinanza” – con la quale rinviò a giudizio il vertice dell’Aeronautica di quel tempo con l’accusa di avere nascosto le prove di una battaglia aerea svoltasi nel cielo attorno allo sfortunato volo di linea – fu però smentita dall’assoluzione piena con la quale si concluse un processo durato quattro anni.
A 43 anni da quella tragedia, i “partiti” del missile e della bomba restano fermi sulle proprie posizioni, mentre manca del tutto una pronuncia chiara e conclusiva da parte di una commissione tecnica d’inchiesta che porti a termine ciò che fu iniziato immediatamente dopo il fatto. Ciò costituisce una grave inadempienza da parte dello Stato italiano nei confronti dell’Oaci/Icao, e cioè della comunità aeronautica mondiale. Un caso unico al mondo, che non fa certo onore all’Italia.
Nel frattempo, in alcune delle università nelle quali è offerto un curriculum per qualificarsi investigatori d’incidenti viene proposta una lezione intitolata “Come non si organizza un’inchiesta d’incidente aereo”, e l’esempio che viene considerato è l’episodio di Ustica 1980.