Sono due le rotaie che compongono un binario. Ma quelle del numero 21 anziché correre parallele, vanno l'una verso i fasti, l'altra verso la morte
Da una parte ci sono i reali, dall’altra le persone costrette a ‘vivere nell’ombra’. E, peggio, a un certo punto addirittura cacciate da quelli che fino a poche ore prima erano stati (anche) la loro terra e il loro Paese. Spedite su un binario cieco verso un capolinea chiamato morte. Due destini contrapposti con la Stazione Centrale di Milano come sfondo, che per gran parte si svolgevano su livelli (e piani) diversi. Due percorsi distinti che però, ironia della sorte, in comune, hanno un numero. Il 21: quello che indicava il binario da cui partivano dalla stazione tutti i treni con la famiglia reale a bordo, ma anche quello impiegato per i convogli di vagoni merci (gli stessi usati per il trasporto di bestiame) carichi di ebrei e prigionieri politici diretti ai campi di concentramento.
È in una stazione di Milano che inizia a vestirsi a festa per l’imminenza del Natale che si svolge la nostra visita. Ad accompagnarci in questo tour è Valentina, guida turistica professionista che ben conosce i segreti dell’imponente edificio concepito da Ulisse Stacchini, il cui progetto iniziale risale addirittura al 1912.
L’imponente mole della Stazione Centrale – concepita prevalentemente per essere una sorta di monumento alla grandezza piuttosto che alla vera praticità (prova ne è che l’accesso ai binari, anziché sul medesimo livello della strada, è situato sul piano rialzato, originariamente sprovvisto di ascensori o scale mobili) – delimita da un lato l’imponente quadrilatero disegnato da Piazza Duca d’Aosta, nell’area immediatamente adiacente al centro storico di Milano, «sorta di ‘trait-d’union’ tra il traffico ferroviario e quello di superficie, veicolare», sottolinea Valentina. Poco distante si stagliano verso un cielo ancora plumbeo le sagome della Torre Breda, primo grattacielo di Milano, e del ‘Pirellone’, la nuova sede della nota azienda simbolo del rinascimento economico del Dopoguerra, dopo che quella precedente era stata distrutta dai bombardamenti alleati sulla capitale lombarda. Davanti all’entrata principale fa bella mostra di sé la ‘Mela Reintegrata’, opera dell’artista Michelangelo Pistoletto realizzata in occasione dell’esposizione universale del 2015.
Qui, prima che i binari ridisegnassero (e non solo esteticamente) il panorama della città, i milanesi si concedevano un po’ di svago, essendo un vasto parco. Il Trotter. Dove si svolgevano le prime partite di baseball o, ancora, le gare dei cavalli.
Con circa 120 milioni di passeggeri annui, la Stazione Centrale è una delle più trafficate d'Europa, e la seconda in Italia (dopo Roma Termini)
A Milano la prima stazione viene inaugurata nel 1840. È la seconda della Penisola dopo quella di Napoli, dove un anno prima per volere Ferdinando II di Borbone viene varato il collegamento tra la capitale partenopea e Granatello di Portici (prima linea ferroviaria in assoluta in Italia, della lunghezza di 7,6 km). Oggi, con i suoi circa 120 milioni di passeggeri annui, la Stazione Centrale è la seconda per flusso di viaggiatori d’Italia (dopo Roma Termini) – e una delle più trafficate d’Europa –, nonché la più imponente con la sua struttura di 200 metri di lunghezza e i suoi 37 di altezza. Ventiquattro sono i ‘serpentoni’ che si dipartono dal capolinea sotto le tre volte della stazione. Che poco oltre danno origine a un ‘groviglio ragionato’ di un centinaio di binari di smistamento su una piattaforma, sopraelevata rispetto al piano stradale, lunga un paio di chilometri con tanto di ‘cappio’ (un binario semicircolare per consentire alle carrozze di invertire il loro senso di marcia senza ricorrere a pedane mobili).
Lo scoppio della Prima guerra mondiale, nel 1914, decreta lo stop ai lavori di costruzione dello scalo ferroviario, ragion per cui tutto slitta di diversi anni. La costruzione riprende dunque solo nel 1925, con rinnovato vigore complice un Benito Mussolini, allora presidente del Consiglio, desideroso di concludere l’opera in tempi relativamente brevi. E così, appena 6 anni più tardi, il 1° luglio 1931, la Stazione Centrale viene inaugurata. Diciannove anni dopo il progetto iniziale (poi logicamente rielaborato e adattato negli anni seguenti).
A lato delle due bandiere che svettano nel centro dell’entrata principale, la ‘Galleria delle Carrozze’, spiccano i cavalli alati, opera di Armando Violi, simbolo del progresso, affiancati da due figure che evocano rispettivamente intelligenza e forza di volontà.
L’edificio è stato concepito per sfruttare al meglio la luce naturale: da qui la scelta dei grandi lucernari sul soffitto principale che, insieme alle finestre laterali, conferiscono ai suoi interni il massimo della luminosità possibile, minimizzando l’apporto della luce artificiale. E non è nemmeno un caso se per la sua costruzione si è optato per materiali chiari. «Nelle sue rifiniture si è voluto rendere una sorta di omaggio al progresso: non mancano i riferimenti agli inventori che con le loro scoperte hanno dato una spinta decisiva nel campo della motricità, come i vari Thomas (italianizzato, per chiara volontà del regime fascista di allora, in ‘Tomaso’) Edison, Denis (‘Dionigi’) Papin, Robert (‘Roberto’) Fulton, George (‘Giorgio’) Stephenson, Galileo Ferraris, Guglielmo Marconi e Alessandro Volta, i cui nomi si possono leggere alzando lo sguardo sulla volta principale della stazione.
La Stazione Centrale di Milano è l’unica d’Italia o, almeno, l’unica di grandi dimensioni, ad annoverare al suo interno una sala d’aspetto esclusiva, riservata ai membri della famiglia reale. Concepita per Vittorio Emanuele III, che per i suoi frequenti spostamenti spesso faceva ricorso al treno.
È un’area esclusiva. Varcarne l’uscio non è cosa per tutti. Non lo era, ovviamente, quando è stata concepita e realizzata (nel 1931), e non lo è nemmeno oggi: fatta eccezione per le mostre a ingresso libero, infatti, questo settore della stazione di norma non è aperto al pubblico. Salvo occasioni particolari, quando l’accesso è consentito, ma a un prezzo non propriamente popolare e dunque per certi versi già selettivo. All’interno, il Padiglione reale trasuda nobiltà. Ogni rifinitura rimanda a un fasto esclusivo, di cui solo i nobili potevano godere e toccare con mano. Anzi, appunto, unicamente i reali e i loro familiari. Al suo interno è come se il tempo si fosse fermato.
Accedendo al Padiglione reale dalla sua entrata a livello della strada, sul lato sud-est della Stazione Centrale (sulla destra, guardando dall’esterno l’entrata principale) la prima che si incontra è la Sala delle armi, «il cui nome si rifà alle decorazioni che l’adornano sotto l’imponente aquila scolpita nella pietra e che rievoca il fascio, la famiglia reale e la conquista delle terre irredente della Prima guerra mondiale».
Poco oltre, prima della scalinata che conduce al piano superiore – reale pure lei: ampia, rischiarata da due grandi lucernari e troneggiata da un maestoso lampadario – sulla destra spicca un’elegante fontana in marmo. È tutto un crescendo di sfarzo, fino a toccare l’apice nella sala d’attesa vera e propria dei reali. Dal soffitto, arricchito dagli stemmi di casa Savoia, pendono diversi maestosi lampadari. Sotto i piedi, invece, un pavimento – ancora quello originale, salvo il tappeto posato in un secondo tempo a scopo conservativo – maiolicato e impreziosito da intarsi che riprendono il motivo geometrico che orna la volta: «Quanto di più elegante si possa immaginare». Niente, insomma, è lasciato al caso. Come quelle svastiche inserite fra gli elementi decorativi del pavimento ora ricoperto dal tappeto. «Aggiunte in un secondo tempo rispetto al progetto iniziale quale segno di ‘benvenuto’ al Führer in occasione di una sua possibile visita all’interno di questo padiglione. Visita che, di fatto, mai avvenne».
Il piano superiore del Padiglione reale ha pure un balcone, dal quale il re poteva affacciarsi per scrutare la situazione lungo la strada sottostante. E se qualcosa fosse andato storto o avesse percepito una minaccia particolare... «Beh, in quel caso nel bagno reale (rifinito con pareti in marmo verde e con arredi sanitari in oro massiccio, ça va sans dire, ndr) dietro a uno specchio si apriva un varco segreto dal quale il re poteva battere in ritirata sul tetto della stazione. Ad ogni buon conto per quanto ci è dato a sapere, questa via di fuga non è mai stato necessario usarla».
Verso l’interno della stazione, quel ‘salotto esclusivo’ si affaccia direttamente sul binario 21, punto iniziale o terminale di tutti i viaggi sulla strada ferrata del re da Milano. La regalità delle decorazioni di quel particolare settore della stazione, con una pavimentazione impreziosita per dettagli e qualità dei materiali, e i tre stupendi mosaici in maiolica (al centro la figura della vittoria con alla sua sinistra il re e alla sua destra il Duce, con quest’ultimo poi sfregiato in segno di disprezzo negli anni seguenti la sua caduta) che completano le ‘lunette’ che sovrastano gli altrettanti ingressi indicano chiaramente ai viaggiatori la prossimità di quell’esclusivo padiglione.
‘Indifferenza’. Impossibile non vedere quella parola (scelta da Liliana Segre, ultima persona ancora in vita del secondo convoglio partito da Milano e diretto ad Auschwitz, il 30 dicembre del 1944) scritta a caratteri cubitali, che ci accoglie appena varcata l’entrata del Memoriale della Shoah. Come del resto era impossibile non vedere quelle camionette che a notte fonda imboccavano in retromarcia il viale d’accesso a quel settore dello scalo ferroviario cariche di persone in quegli ultimi tragici anni della Seconda guerra mondiale, a meno di non volgere altrove lo sguardo, volutamente o no. Camionette cariche di ebrei trasferiti dal carcere di San Vittore in attesa di essere inviati, come ‘merce’ – ‘Stücke’, come venivano tristemente definiti dagli addetti alle operazioni in stazione, per fare pace con la propria coscienza e giustificarne la presenza in una zona altrimenti riservata esclusivamente alle merci –, verso capolinea dai nomi tristemente noti: Auschwitz, Mauthausen, Bolzano, ...
«Dopo la Seconda guerra mondiale questo deposito era stato quasi dimenticato, tant’è vero che a un certo punto si era addirittura ventilata l’idea di costruirci un supermercato», racconta Nicola, la nostra guida per il Memoriale, la cui voce viene più volte sovrastata dal rumore di un treno in transito sui binari soprastanti, dando alla scena un tocco ancora più lugubre che ben si sposa (purtroppo) con quanto proprio qui hanno provato sulla loro pelle migliaia e migliaia di persone.
La Storia, quella con la ‘esse’ maiuscola, gli ha però riservato un destino diverso a questo luogo, dove nel 2013 viene inaugurato il Memoriale della Shoah. «Un doveroso omaggio a chi qui ha perso tutto, compreso il bene più prezioso: la vita. E, al tempo stesso, una testimonianza storica affinché il ricordo di questa immane carneficina resti indelebile. Perché proprio qui sotto, nelle viscere della Stazione Centrale, con la compiacenza di molte persone che ‘fingevano’ di non sapere e volgevano la testa dall’altra parte si è compiuto il destino di migliaia di persone. Tutto, qui, nella ‘pancia’ della Stazione Centrale, è stato mantenuto come allora; perfino le colonne portanti di questo settore della stazione, comprese le sbrecciature».
Complessivamente, tra dicembre 1943 e gennaio 1945 da Milano partirono 23 convogli carichi di ebrei o prigionieri politici. Un viaggio nella maggior parte dei casi senza ritorno... «Parlare di Olocausto (che letteralmente significherebbe ‘sacrificio propiziatorio’) non sarebbe corretto, per questo si è deciso di riferirsi a quanto perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei con il termine di Shoah, ossia ‘distruzione’: in questa storia, per quanto ci è dato a sapere, nessuno si è sacrificato volontariamente».
Come in superficie (o, meglio, al piano rialzato della Stazione Centrale), anche nelle sue viscere erano presenti ventiquattro binari, «tutti però adibiti esclusivamente al traffico di merci, posta e bestiame».
Poco oltre l’entrata, in un cubo di vetro che sembra illuminato a giorno dalla luce naturale che penetra dall’esterno – in netto contrasto col resto dell’ambiente, più tetro – si possono scorgere migliaia di libri e documenti. «È il nostro archivio storico, una biblioteca che custodisce 35’000 volumi del Centro documentazione ebraica. È stata realizzata in quello specifico punto perché è proprio lì che nelle buone giornate l’illuminazione è maggiore. Quello è il luogo in cui saranno custodite in modo imperituro la memoria e le prove concrete della Shoah, anche quando non ci saranno più testimoni diretti in vita. Lì, fra gli altri, si trova pure il documento della registrazione alla Prefettura di Milano effettuata da Alberto Segre, il papà di Liliana, in ottemperanza al censimento di tutti cittadini italiani di origine ebraica decretato nel 1938.
Oltrepassati i vagoni su cui venivano mandati alla morte ebrei e prigionieri politici (gli originali di allora, recuperati ma volutamente non restaurati), si scorge il montacarichi con cui venivano issati al piano superiore.
Sul piazzale, accanto al binario, 23 targhe riportano data e tragitto di quegli altrettanti convogli della morte partiti dalla Stazione Centrale. Mentre sullo sfondo della parete è proiettato l’elenco delle 774 persone caricate sui primi due treni di prigionieri partiti da Milano, con, evidenziati in arancione, i soli 27 sopravvissuti a quell’inferno. E fra questi nomi c’è pure quello di Liliana Segre, l’unica ancora in vita.
Di forma quadrata e in ottone, le Pietre d’inciampo, diffuse tanto in Italia quanto in molti altri Paesi d’Europa, costituiscono un simbolo alla memoria di queste vite spezzate. Passeggiando per le vie cittadine se ne possono incontrare parecchie, collocate proprio in corrispondenza alla casa dove viveva la persona (o l’intera famiglia) poi deportata in un lager. Ognuna, sul suo dorso, reca i dati delle persone evocate da questo ‘segnaposto’ per non dimenticare. Quella qui fotografata si trova nei pressi della Stazione Centrale. La prima Pietra d’inciampo (‘Stolpersteine’) è stata posata a Colonia nel 1992. A inizio 2019, quelle recensite erano 71’000 (171 a Milano).
L’architettura fascista fu senza dubbio favorita dall’elevato numero di opere pubbliche le quali, realizzate dal regime, ne testimoniavano l’incisiva e concreta presenza non solo in Italia ma anche nelle colonie. Nello stesso tempo questo genere di architettura voleva pure contrapporre allo stile di vita individualistico borghese quello eroico e collettivo. Il regime fascista diede il via alla progettazione di aree urbane, alla costruzione di edifici e nuove città. Il caso della Stazione Centrale è invece diverso: qui il fascismo si inserisce in un contesto architettonico già esistente pensato da Stacchini e realizzato sulle convinzioni e speranze di un’epoca vicina ma ormai terminata.
Nell’Italia del ventennio fascista s’impone dapprima lo stile razionalista, con edifici grandiosi ma gelidi allo stesso tempo a causa dell’utilizzo del marmo, di facciate con lastre piane, della ripetizione di forme geometriche come il cubo e il cilindro, il contrasto dei bianchi e dei neri e l’assenza di decorazioni. Lo scopo principale dell’architettura era quello propagandistico di incanalare il gusto popolare in un’estetica che fosse lo specchio fedele del regime fascista. Nella Stazione Centrale monumentalità e classicismo erano già parte del progetto originale, pertanto vennero aggiunti elementi in corso d’opera carichi di simbolismo per completare la ‘fascistizzazione’ dell’edificio, come la presenza di fasci alle pareti (alcuni ancora visibili) e l’applicazione della nuova datazione fascista, come si può intuire dalle iscrizioni ‘Era fascista IX’ (1931) ormai cancellate, ma che allora avevano un chiaro messaggio: rivendicare la realizzazione e il completamento dell’opera da parte del regime fascista. Che riuscì quindi ad assoggettare pure l’architettura, come avvenuto per il cinema, i media, il dopo lavoro e le associazioni giovanili, al servizio del regime.
Ludovico Zappa, storico